Medicina di genere, la nuova frontiera per contrastare il gender gap

È chiaro a tutti che esistono delle differenze tra ‘maschi e femmine’, ma è importante riconoscerle soprattutto a livello clinico. Come spiega la dottoressa Pelà, “la medicina di genere non è una medicina per le donne ma è una medicina di precisione sempre più orientata all’individuo, sia esso uomo o donna, indica al medico quale terapia sia più adeguata"

Il penultimo appuntamento di quest’anno con gli Aperitivi della conoscenza dell’Università di Parma, indaga sulle differenze di sesso e di genere che si presentano a livello medico, e sull’impatto che queste differenze hanno sullo stato di salute e malattie delle persone. A parlarne sono la professoressa Susanna Esposito, docente di Pediatria Generale e Specialistica e direttore della Clinica Pediatrica all’Ospedale Pietro Barilla e la professoressa Giovanna Maria Pelà, docente di Malattie Cardiovascolari e di Medicina dello Sport, del dipartimento di Medicina e Chirurgia.

Il concetto di medicina di genere nasce dall’idea che le differenze tra uomini e donne in termini di salute siano legate non solo alla loro caratterizzazione biologica e alla funzione riproduttiva, ma anche ai fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali, definiti dal termine “genere”, fattore importante per la salute delle persone. Una crescente mole di dati indicano che ci sono profonde differenze tra sesso maschile e sesso femminile, in termini di predisposizione ad una malattia, di manifestazione e di risposta al trattamento. A sua volta, esiste anche una diversa percezione della malattia: la richiesta di aiuto è diversa tra i due generi, le scelte decisionali e il comportamento del paziente, in quanto maschio o femmina, e del medico può influenzare le scelte decisionali.

La differenza tra sesso e genere

Risulta fin da subito essenziale chiarire le differenze tra i termini sesso e genere. Con la parola sesso si intende l’essere uomo o essere donna, legato alle caratteristiche biologiche a seconda della coppia cromosomica XX o XY; questo condiziona la persona a livello molecolare e cellulare, ma anche a livello fisiologico e patologico. Per genere, invece, intendiamo la percezione che ognuno ha in quanto maschio o femmina (la cosiddetta “identità di genere”), su cui agisce un costrutto sociale, insieme di elementi che vanno dai tratti di personalità, le attitudini, i sentimenti, i comportamenti e al ruolo che la società dà all’uomo o alla donna. Nell’ambito della medicina di genere bisogna tenere conto anche dell’orientamento sessuale di una persona, che può essere l’eterosessualità, ma anche l’omosessualità, la bisessualità o l’asessualità. Vi è una stretta correlazione tra sesso e genere, poiché possono non soltanto influenzare la fisiologia, ma soprattutto la patologia, e difficilmente si può attribuire esattamente ciò che dipende dal sesso e ciò che dipende dal genere.

Altro aspetto estremamente importante è che la ricerca biomedica, di fatto, arruola principalmente soggetti di sesso maschile, portando così ad un’inferiore rappresentazione (o non rappresentazione) della popolazione femminile nei trial clinici. La medicina di genere è quindi un approccio, per l’appunto, di genere nella pratica clinica, che consente di promuovere l’appropriatezza delle cure, la prevenzione e la diagnosi, sapendo che le malattie comuni all’uomo e alla donna hanno differenze in termini di incidenza, predisposizioni, sintomatologia e risposa ai trattamenti.

Il genere come determinante di malattia in età pediatrica

L’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile vede una serie di 17 obbiettivi (detti goals), che vengono inseriti all’interno di tre dimensioni principali: economica, sociale ed ecologica. Questi obbiettivi spaziano da salute e benessere a obbiettivi come la sicurezza alimentare, la vita sulla terra e la crescita economica. Nel Goal 5, quello della parità di genere, il tema viene affrontato a 360 gradi, non comprendendo solo i paesi industrializzati, ma anche quelli a risorse limitate, mettendo accenti sulla violenza di genere, sul lavoro delle donne e sul fatto che determinate patologie hanno una valutazione di genere ben evidente.

Dal punto di vista delle disuguaglianze cliniche, vi sono paesi in cui le bambine ricevono meno attenzione dei maschi per gli aspetti dell’assistenza sanitaria: gli esempi più lampanti sono nelle realtà asiatiche e africane, nelle quali si osserva che la mortalità nelle femmine è più elevata di quella che si osserva nei maschi, in quanto l’attenzione a quest’ultima è superiore. Di pari passo, se si vanno ad analizzare le coperture vaccinali di questi paesi, si nota che le coperture dei maschi sono molto più alte rispetto a quelle delle femmine. Entrando nello specifico dei fenomeni della malattia, la professoressa Esposito parla poi del sistema immunitario che si sviluppa nel corso degli anni, arrivando alla sua normalizzazione (ovvero una serie di caratteristiche del sistema immunitario simili a quelle dell’adulto) dopo i cinque anni di età. A fronte di questo, nella popolazione maschile il sistema immunitario si sviluppa più lentamente, e questo spiega perché i maschi tendano ad avere un rischio di infezione respiratoria ricorrente, come può essere la tubercolosi, superiore rispetto a quello delle femmine. La docente tiene a specificare che questo però “non può essere considerato un dato assoluto, poiché ci sono tantissimi altri fattori di rischio (frequenza precoce del nido, vivere in una famiglia numerosa, avere allergie, ecc)”.

Per contro, la risposta ai vaccini è migliore nelle femmine rispetto ai maschi: “I maschi si ammalano di più e le femmine rispondono meglio ai vaccini”, che è anche la ragione del perché hanno anche più effetti collaterali. Nella popolazione pediatrica questa differenza ha un ruolo modesto, poiché il fattore delle caratteristiche ormonali è molto contenuto, ma dall’adolescenza in poi il tema relativo al genere e alle differenti risposte è un fattore che può caratterizzare la sicurezza: il caso del vaccino AstraZeneca ne è un esempio lampante, nel quale il rischio maggiore di avere effetti collaterali importanti (trombosi venose) si è osservato prevalentemente nella popolazione di sesso femminile in età fertile. Tuttavia, un sistema immunitario che risponde troppo non è sempre un sistema efficiente, poiché può essere la causa di malattie autoimmuni (tiroiditi autoimmuni, sclerosi multipla, artrite reumatoide).

Le soluzioni per quanto riguarda la sicurezza sanitaria si può riassumere in una protezione maggiore rispetto alle infezioni nel maschio e, per quanto riguarda la fase dello sviluppo puberale, il monitoraggio delle malattie autoimmuni nella femmina, portando comunque avanti un controllo celere per entrambi i generi.

È noto che le femmine hanno uno sviluppo puberale più precoce rispetto ai maschi (11 o 13 anni, rispetto ai 14 o 16 dei maschi), strettamente correlato anche al discorso relativo alla funzionalità dell’ipofisi e del sistema nervoso, influenzato da eventuali stati di ansia e depressione: si è osservato nell’ultima decade un aumento dei casi di pubertà precoce, dovuto anche da quelli che sono stati definiti interferenti endocrini. A causa del lockdown questo aumento è stato esponenziale: rimanendo a casa, soprattutto le femmine hanno sviluppato disagi come ansia e depressione, più tipica della popolazione di sesso femminile, portando la comparsa del menarca a 7 o 8 anni di età.

Quindi, lo sviluppo puberale è condizionato anche dalla componente neuropsichica nel corso dello sviluppo dei bambini, avendo anch’essa una differenza di genere: alcune patologie tipiche dell’età pediatrica, come il deficit di attenzione e iperattività sono molto più frequenti nei maschi rispetto alle femmine, nelle quali prevalgono depressione e ansia. Si parla, dunque, di sviluppo cerebrale: gli uomini possiedono più neuroni, ma le donne hanno maggiori connessioni, sviluppando così la tendenza ad avere più memoria, abilità sociali e multitasking; per questo motivo, le caratteristiche cerebrali saranno sicuramente diverse. Per quanto riguarda l’ambito clinico, l’ambiente sembra avere un ruolo fondamentale nella plasticità di questo sviluppo: “Gina Rippon, neurobiologa e femminista britannica, ha studiato le caratteristiche di genere del cervello, ponendo molta attenzione al ruolo dell’ambiente, in quanto l’unicità cerebrale e la sua mutevolezza è fortemente condizionata da quello al quale il cervello è sottoposto”.

Un esempio di questo sviluppo è dato anche dallo studio (e la scoperta) dei neuroni specchio da parte del professor Giacomo Rizzolatti, per dimostrare come lo stimolo ambientale sia importantissimo. Questo non solo per lo sviluppo normale, ma anche per condizioni patologiche infantili, nelle quali l’effetto di questi neuroni è fondamentale per le potenzialità di ognuno, spiegando come mai determinate patologie abbiano una prevalenza diversa nel genere. Il rischio di convulsioni e di epilessia nei maschi è superiore a quello delle femmine, così come si può osservare nell’uomo adulto la prevalenza di malattie come la schizofrenia o il Parkinson, mentre nella donna l’Alzheimer è decisamente più frequente.

L’importanza della medicina di genere in diversi contesti clinici: Long COVID e infarto

Continua l’intervento la professoressa Pelà, rafforzando la tesi dell’importanza della medicina di genere esponendo i dati separati per uomini e donne del Long COVID, i quali hanno consentito di studiare i meccanismi biologici e sociali alla base delle differenze di genere, allo scopo di attuare strategie preventive terapeutiche personalizzate. I dati italiani del progetto Cardio-Covid ECG dimostrano che vi sono differenze nell’ambito della fase acuta del covid tra sesso maschile e femminile: la popolazione maschile è gravata da una maggiore mortalità e gravità di casi, mentre la popolazione femminile presenta una maggiore sintomatologia. Due dei fattori che entrano in gioco sono di tipo ormonale (la risposta immunitaria), che determina una maggior reattività all’infezione nella donna e le malattie respiratorie e cardiovascolari, che gravano in senso negativo nel sesso maschile.

Il Long COVID è, di fatto, una sindrome clinica, ovvero la persistenza di oltre 12 settimane dei sintomi, dove al primo posto si ha l’astenia, la dispnea, cardiopalmo, disturbi della sfera psichica (ansia, depressione): tutti fattori che non si riesce ad etichettare come un danno organico agli organi compromessi dalla malattia. Gli elementi che contribuiscono a questa sintomatologia sono numerosissimi e legati alle pregresse malattie e al tipo di paziente che si valuta (se ospedalizzato, in terapia intensiva o ambulatoriale) ma, tra i fattori principali, quello determinante è ancora una volta il sesso: le donne risultano essere più sintomatiche degli uomini. Un’influenza importante è quella dell’autoimmunità: oltre alla persistenza di particelle virali, la malattia sembra che scateni una risposta autoimmune all’infiammazione, elemento che giustifica il Long COVID e, come si è già detto, la donna tende ad essere più reattiva all’infezione, essendo così più protetta rispetto all’uomo, ma presentando più sintomi nel lungo periodo.

Questo riscontro viene confermato quando si osservano i dati di valutazione nella persistenza dei sintomi nella fase di post covid tra la popolazione di sesso maschile e quella di sesso femminile. L’uomo, per quanto riguarda la dispnea, nel post covid migliora in maniera significativa, mentre la donna rimane stabile, la tosse migliora in entrambi i gruppi, mentre l’astenia (ovvero la mancanza di forze) è invariata nel maschio, ma nella donna peggiora con il passare del tempo. Per quanto riguarda il dolore toracico, nell’uomo migliora, mentre nella donna continua a persistere, ed in entrambi i gruppi valutati si ha un peggioramento dei disturbi del sonno.

Infine, nell’ambito della cardiologia vi sono le maggiori evidenze che esistono differenze di genere: la popolazione femminile viene poco studiata, non viene riconosciuta la malattia e, per questo motivo, viene minormente diagnosticata e trattata; eppure, la donna si ammala più dell’uomo di malattie cardiovascolari. Una convinzione di molti è che l’infarto sia tipicamente maschile, ma i dati epidemiologici europei dimostrano che le malattie vascolari nelle donne sono, in percentuali, il 9% in più rispetto agli uomini. Interviene inoltre il fattore dell’età: nei maschi le malattie cardiovascolari vengono registrate in età più precoce (65 anni), mentre nella femmina in età anziana (75 anni), e la presenza di altre patologie spesso porta ad un decorso prognostico più sfavorevole. La patologia è sotto diagnosticata poiché la donna non presenta i sintomi tipici dell’infarto, come il dolore oppressivo al petto, ma si manifesta in altri modi: affanno, sensazioni di malessere e bruciori allo stomaco. Le conseguenze sono una sottovalutazione del sintomo da parte della donna stessa, un ritardo nella diagnosi un ritardo nel trattamento, una peggiore evoluzione e prognosi.

Un altro aspetto importante riguarda la conoscenza dei fattori di rischio cardiovascolari: nella donna sono peculiari, e vanno di conseguenza tenuti in considerazione. Una donna che presenta un’ipertensione gravidica avrà maggior rischio di infarto rispetto ad una donna che non ha avuto questa patologia in gravidanza, così come il diabete gestazionale, un parto pretermine e la depressione post partum. Per questo motivo, in una corretta anamnesi bisognerebbe chiedere il numero di parti e i dettagli clinici su questi. Anche in questo caso l’età influisce notevolmente, dovendo così calibrare una giusta prevenzione in ogni stadio della vita della femmina: nella bambina prevenire l’obesità infantile e la vita sedentaria per la prevenzione delle malattie dismetaboliche, nella donna e, soprattutto, nell’anziana fattori di stress psicosociali e depressione.

La medicina di genere non è una medicina per le donne – tiene a chiarire la docente Pelà – ma è una medicina di precisione sempre più orientata all’individuo, sia esso uomo o donna, indica al medico quale terapia sia più adeguata, orientando in modo più preciso e corretto l’atto medico, evitando sprechi di risorse e gli effetti collaterali (più frequenti nelle donne)”.

La professoressa Esposito aggiunge che “le statistiche e i numeri non ci spiegano ancora se la causa di tutte queste diversità risiede in fattori genetici, metabolici, ormonali o ambientali, ma è abbastanza chiaro il fatto di dover incrementare la formazione sul gender gap”; quello che conta veramente è il creare una rete di supporto per essere vicino alle famiglie con figli, in particolare coloro che manifestano identità di genere e orientamento sessuale ‘non conformi’ a quanto socialmente considerato ‘standard’ in base al genere di appartenenza alla nascita, poiché tutt’ora è sottoposto a un grande stigma. La forza sta nel rispettare la differenza, rispetto che non sempre si ha e che, oggettivamente, porta a trattare in modo diverso la bambina, l’adolescente e la donna nei diversi contesti”.

di Beatrice Guaita

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