Dribbling sì, ma di diritti: il libro di Riccardo Noury smaschera Qatar 2022

Nella monografia "Qatar 2022, i mondiali dello sfruttamento", l'autore porta alla luce gli scheletri nascosti nell'armadio dell'emirato

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Gli ultimi mondiali di calcio non erano cominciati molto bene con le polemiche sui diritti dei lavoratori e non si sono chiusi meglio con lo scandalo Qatargate, esploso a competizione in corso.

Per quanto riguarda i diritti civili, il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury si era già da tempo attivato per fare chiarezza, sublimando gli sforzi in una monografia uscita a settembre 2022, che ha portato alla luce gli aspetti controversi della gestione della competizione prima ancora che il clamore degli stadi e dei gol li coprisse. Quante vite sono costati gli stadi realizzati in tempi record dal valore di oltre 6 miliardi di euro? Quali erano le condizioni dei lavoratori? Queste e altre domande trovano risposta nella lucida analisi dello scrittore nel libro Qatar 2022, i mondiali dello sfruttamento.

Sciacquare via lo scandalo: la strategia dello ‘sportwashing’

Con sportwashing si intende una forma di propaganda attuata da uno Stato per migliorare la propria reputazione (negativa) grazie all’organizzazione di grandi eventi sportivi. Attraverso eventi blasonati come la Coppa del Mondo, un Paese può così far sfoggio di grandi capacità organizzative, mettendo in ombra altri aspetti scomodi – come il mancato rispetto dei diritti umani.

Non a caso, la strategia di pubbliche relazioni dietro a questa pratica puntualmente trattata da Noury è chiamata white washing, termine che dà l’idea del dare una mano di bianco, come a imbiancare qualcosa, coprire eventuali segni sulla carrozzeria reputazionale di un Paese. Agli occhi del mondo conta mostrarsi moderni, competitivi e ‘puliti‘; se ai primi due requisiti ci ha pensato la fortunata geografia del Qatar, con enormi giacimenti di idrocarburi, al terzo tassello ci pensa, appunto, lo sportwashing, che permette di nascondere vari scheletri nell’armadio.

Nel libro è spiegato che il binomio su cui poggia questa attività è dato dalla passione del pubblico sportivo e dalla scarsa capacità del giornalismo di settore nel trattare le questioni umanitarie (è roba da redazione esteri!). La narrazione cardine dello sportwashing è quindi quella secondo la quale “sport e diritti sono due cose diverse”.

Morti alla mano: la controversa situazione dei lavoratori migranti in Qatar

Noury riporta che, dopo il 2010, anno in cui è stato eletto come Stato ospitante per i Mondiali del 2022, il Qatar ha accolto molti lavoratori provenienti da Africa e Asia che hanno costituito il 90% della forza lavoro del Paese e senza i quali il successo della competizione sarebbe stato indubbiamente compromesso.

Compromessa, però, è stata sicuramente la salute – e addirittura la vita – di molti di loro: oltre 15.000, di ogni età e occupazione, nel periodo dal 2010 al 2019, secondo l’Autorità per la pianificazione e le statistiche (il 63% dei quali provenienti dall’Asia). I lavoratori in questione avevano superato tutti gli esami medici di routine prima di arrivare in Qatar; sulle cause della morte di queste persone le autorità locali hanno indagato ben poco, limitandosi a emettere certificati medici che si riferissero a “cause naturali”, “cause sconosciute” o “arresto cardiaco”, senza alcun riferimento alle condizioni di lavoro.

Ma cosa significa “morte per arresto cardiaco”? Tutto e nulla. Molte persone muoiono di infarto ogni giorno ed è necessario indicare una causa precisa di questo tipo di decessi.

A fare chiarezza ci ha pensato il rapporto eseguito da Amnesty International Verifica 2021: a un anno dai Mondiali di calcio del 2022, riguardante sei lavoratori migranti sulla trentina provenienti da Bangladesh e Nepal. Elemento comune delle loro storie, tutte senza lieto fine, è il vertiginoso livello delle temperature, che in estate possono anche superare i 45°.

il cardiologo Dan Atar, Fonte: profilo Facebook di Dan Atar

Una prima miccia sulla faccenda era già stata accesa da una ricerca del giugno 2019 della rivista Cardiology, che attestava che la morte di metà dei 571 lavoratori nepalesi era da attribuirsi a cause cardiovascolari evitabili se fossero state prese misure contro le temperature elevate.

La correlazione tra il caldo e la morte dei lavoratori nepalesi ha avuto un‘ulteriore conferma dal cardiologo Dan Atar dell’università di Oslo, tra gli autori della ricerca, in un’intervista ad Amnesty International: “Il picco della curva dei decessi nei mesi estivi e il fatto che i lavoratori morti fossero persone relativamente giovani e selezionate per la loro capacità di sopportare sforzi fisici hanno portato alla pista della morte per colpo di calore.”

Queste rivelazioni hanno portato le autorità qatariote ad apportare nuove misure sulla protezione dal caldo, seppur in ritardo: nel maggio 2021, la pausa lavorativa nelle ore più calde (prevista originariamente dalle 11:30 alle 15:00 nel periodo dal 15 giugno al 31 agosto) è stata prorogata dalle 10 :00 alle 15:30 in un periodo compreso tra il 1° giugno e il 15 settembre. Ulteriore concessione per i lavoratori è stata la possibilità di adeguare il ‘proprio ritmo’ alle condizioni atmosferiche, prendendosi pause quando necessario e sospendendo le attività con temperature superiori ai 32 gradi.

Molti esperti si sono però dimostrati scettici riguardo quest’ultimo punto, sottolineando come in un Paese dove i rapporti di lavoro sono ad un tale livello di iniquità, la concezione di “ritmo” non sia molto relativa, ma possa pendere tutta dalla parte dei datori di lavoro.

Il lavoro schiavizza l’uomo (migrante)

È infatti il rapporto tra lavoratore e datore un’altra faccenda oscura che il Qatar ha tentato di ‘verniciare’ attraverso l’organizzazione dei Mondiali. Un sistema illegale, ma de facto vigente nello stato è quello della Kafala, traducibile come sponsorizzazione o fideiussione, che lega lavoratore e datore di lavoro (Kafeel) in un rapporto vizioso, caratterizzato da ricatti come la confisca del passaporto e la sottomissione di un certificato di non obiezione, unico documento che permette al lavoratore di cambiare lavoro o lasciare il paese.

Nella pratica un vero e proprio sistema di lavoro forzato che, nonostante i tentativi di contrastarlo delle autorità qatarine, ha soggiogato molti lavoratori. Molto si gioca sul ruolo dispotico del Kafeel, da cui di fatto dipendono l’entrata, il permesso a soggiornare e l’uscita dal Qatar dei lavoratori.

Annullare o non rinnovare il loro permesso di soggiorno equivale a farli risultare ‘assenti’ dal posto di lavoro, mettendoli in una posizione di “irregolarità” ed esponendoli sensibilmente al rischio di arresto e conseguente espulsione dal Paese.

Fonte: pagina Facebook Freedom United

Le riforme avviate negli ultimi 5 anni per contrastare il fenomeno si sono rivelate vane: la norma del 2018, che abolisce l’obbligo, per il lavoratore migrante, di ottenere il permesso del Kafeel per lasciare il paese è facilmente aggirabile: basta trattenere, rubare o distruggere il passaporto, presentare una falsa denuncia di assenza dal lavoro o non rinnovare il permesso di soggiorno del lavoratore.

Discorso analogo per le leggi 18 e 19 del 2020, secondo le quali il lavoratore migrante ha diritto a cambiare impiego dopo 6 mesi di prova. Basta vincolarlo con un contratto di 5 anni, minacciare di annullare il suo permesso di soggiorno con conseguente denuncia di “assenza” dal lavoro e il gioco è fatto.

Con la gloria non si mangia

Oltre al danno, la beffa. Un altro problema nella questione del lavoro in Qatar, venuto alla luce sempre nell’opera di Noury, riguarda i salari: il mancato o ritardato pagamento degli stipendi, le deduzioni arbitrarie in busta paga e il non riconoscimento di straordinari rappresentano una nota dolente nell’organizzazione del lavoro qatarina.

Eppure, nell’accordo di partenariato tra lo Stato emiro e l’International Labour Organisation (Ilo, l’organizzazione internazionale del lavoro, promotrice di giustizia sociale e diritti umani con particolare attenzione, appunto, all’ambito lavorativo) del 2017, erano stati elencati una serie di buoni propositi per tutelare al meglio i lavoratori.

Nella pratica però, si è ottenuto poco: il Fondo di sostegno e garanzia, nel suo primo anno di attività ha erogato 14000 rial (meno di 3500 euro) a un totale di 5500 lavoratori. Frammenti di stipendio, poco più.

Un caso eclatante è quello di 34 lavoratori nepalesi e filippini della Mercury Mena, prestigiosa azienda ingegneristica la cui manodopera è stata impiegata in altrettanto prestigiosi progetti come la costruzione dello stadio Lusail e che doveva ai suoi dipendenti l’equivalente di 2000 euro a testa per salari e altri benefici a partire dal 2016. Negligenza e silenzio da parte del datore di lavoro hanno caratterizzato l’evoluzione della faccenda.

Lo stadio al-Bayt, Fonte:pagina Facebook della Gazzetta dello sport

Non se la sono passata molto meglio i dipendenti della Qatar Meta Coats, impegnati in lavori di completamento della facciata del al-Bayt, il famoso stadio a forma di tenda beduina che ha ospitato la semifinale tra Francia e Marocco. Per i cento lavoratori migranti provenienti da Asia e Africa, gli stipendi si sono rivelati un miraggio nel deserto: dai primi ritardi nel versamento a inizio 2019, fino all’interruzione dei pagamenti da agosto a marzo 2020.

Poi, dopo qualche sussulto di due mensilità pagate, la pandemia ha fermato i lavori. A fine maggio, il credito accumulato dai dipendenti risultava da un minimo di 8000 fino a 60.000 rial (da 2000 a 15000 euro) cada uno. Il ricorso dei lavoratori ha portato l’azienda a versare 4 mensilità pregresse; poca roba, soprattutto se si considera che nel frattempo le famiglie dei dipendenti hanno avuto non pochi problemi a pagare le rette scolastiche dei figli, le cure salvavita e gli intermediari.

Testa bassa e lavorare (fino allo sfinimento)

Ma com’era, nel concreto, la giornata tipo di chi ha lavorato per il mondiale in Qatar? Quali sono i “ritmi” di cui si è parlato in precedenza? Nella monografia di Noury è riportato che a rispondere è ancora una volta Amnesty international nel suo rapporto Quelli pensano che siamo degli automi, condotto su dipendenti di aziende di sicurezza privata operanti nell’emirato qatariota.

Nel libro Qatar 2022, i mondiali dello sfruttamento è descritta la giornata tipo di un lavoratore come il keniota Milton: sveglia alle 5:00, alle 6:30 passa l’autobus, alle 7:20 si è sul posto di lavoro, alle 7:30 comincia il turno, alle 19:30 il turno finisce. Alle 20:00 comincia il viaggio di ritorno. Il tutto ripetuto per mesi, senza un giorno di riposo.

Rifiutare questi ritmi porta ad una detrazione del salario se non addirittura al licenziamento. Prendere un giorno di riposo senza autorizzazione può costare da uno a sei giorni di paga. Tentare con le buone di prenderlo corrisponde spesso ad ottenere un rifiuto, con la motivazione ufficiale della mancanza di un sostituto.

Fonte: pagina Facebook Qatar 2022 Fifa World Cup

Anche ammalarsi, o meglio dimostrare la prorpria malattia,risulta complicato, a causa di alcuni cavilli dati da legge e accessibilità alle prestazioni mediche: la prima richiede che il lavoratore dimostri la malattia dal primo giorno di assenza con un certificato medico approvato dal suo sovrintendente, ma la seconda è fortemente limitata. Va da sé che in queste condizioni e ai già citati ritmi di lavoro, da un lato è facile ammalarsi, dall’altro è difficile dimostrarlo nei termini previsti dalla legge.

Ciliegina su questa pericolante e scadente torta, il rigido regolamento da rispettare sul luogo di lavoro: ricevere soldi, cibo e sviluppare amicizia con colleghi o visitatori può comportare il licenziamento.

Regolamento che ha portato i dipendenti a pagare varie sanzioni per infrazioni invocate in modo a dir poco pretestuoso: un lavoratore, vedendosi negato il permesso di fare una telefonata per un’emergenza, ha provato ad arrangiarsi di nascosto: 1500 rial (quasi 400 euro) di multa; il caldo torrido ti porta a slacciarti la cravatta? Sono 50 rial (12,50 euro) di trattenuta; c’è un difetto nella divisa? Se viene notato, sono 500 rial (125 euro). Questi – e altri -gli aspetti controversi sviscerati da Noury nella sua monografia.

Tragicomico, poi, che proprio chi si occupa di sicurezza abbia dovuto operare in condizioni pericolose, all’aperto sotto il sole cocente per ore. A poco sono servite servono le restrizioni già citate sul lavoro all’aperto nei mesi più caldi: chi lavora nei parcheggi, nelle spiagge o nelle piscine deve stare all’aperto, e proprio in questo dover stare all’aperto consiste, paradossalmente, il suo vicolo cieco.

di Michele Bonucchi

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