Contro gli stereotipi sui detenuti: una tesi dal carcere da 110 e lode

Questa, per Maurizio Angelo Moscato, è la seconda laurea a pieni voti studiata e scritta all’interno della sua cella nella Casa di Reclusione di Parma. Un elaborato che dà voce a chi vive la realtà del Penitenziario

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L’importanza della cultura, della rieducazione e soprattutto dell’informazione, sono questi gli argomenti trattati dal gelese Maurizio Angelo Moscato, attualmente detenuto nel carcere di Parma, durante l’esposizione della sua tesi di laurea magistrale in Giornalismo e Cultura editoriale dell’Università di Parma. La dedizione e l’impegno con cui di volta in volta ha preparato gli esami sono sempre stati premiati con il massimo dei voti e lo stesso è avvenuto durante la proclamazione per aver terminato il percorso di studi.

Ad accompagnarlo per l’intero cammino accademico sono state le tutor, le Dottoresse Clizia Cantarelli e Annalisa Margarita, e la Relatrice, la professoressa Vincenza Pellegrino. Insieme a Moscato hanno formato un team tanto solido da riuscire a portare all’esterno un racconto di lotta contro ogni tipo di stigma che quotidianamente investe la persona dietro le sbarre.

Dottore bis

Per Moscato si tratta della seconda laurea; la prima, in Lettere, era stata conseguita a gennaio del 2017, davanti ai docenti dell’Università Tor Vergata di Roma e ai suoi congiunti. Un ulteriore traguardo è stato festeggiato lo scorso giovedì 15 dicembre. Moscato ha esposto il suo elaborato, «Lo stigma sul carcere e i detenuti: gli stereotipi, i pregiudizi e la disinformazione», di fronte alla commissione parmigiana, presieduta dal professor  Marco Deriu, e ai parenti. 

Durante l’intero discorso, Moscato, che affronta la realtà detentiva da 34 anni, ha insistito con l’argomento riguardante la disinformazione da parte dei media che influenzano l’opinione pubblica,da cui spesso derivano i pregiudizi nei confronti dei ristretti che, come sostiene il gelese, vivono in un “luogo non luogo”. Il doppio processo a cui sono sottoposti scaturisce, non di rado, una sentenza eseguita nella piazza virtuale offerta dal web. In questo modo, comodamente da casa, le persone possono giudicare la colpevolezza e dall’“imperfetto conosciuto” diventa il “perfetto sconosciuto” stigmatizzandolo sul momento senza conoscere in alcun modo quelli che sono i dettagli della vicenda: come si evolverà il suo cammino detentivo, se la rieducazione gli donerà una possibilità di riscattarsi e gli offrirà nuove competenze.

Ci sono, infatti, anche aspetti che spesso non sono considerati importanti da chi sta oltre le mura. Per esempio i traguardi raggiunti dai detenuti grazie all’aiuto della cultura. «Lo studio universitario è da considerare come un’esperienza utile per affrontare una lunga e infinita pena detentiva», ha affermato Moscato.

Lui per primo, consapevole delle difficoltà che uno studente detenuto deve affrontare quando decide di intraprendere un percorso universitario, si è messo nuovamente alla prova dedicando gran parte delle sue giornate allo studio. Riprendere in mano i libri non ha significato soltanto poter dare un senso alle sue giornate, che altrimenti sarebbero sempre uguali a se stesse, ma anche e soprattutto poter raccontare uno stato di semi abbandono da parte delle istituzioni per chi, come lui, dimostra una considerevole trasformazione interiore. «Mi sono impegnato, ho fatto sacrifici ulteriori, ho rinunciato a tante ore d’aria (passeggio, sport), attività che per un detenuto sono fondamentali. È stata un’altra esperienza che mi ha arricchito di altro sapere», ha scritto tra le pagine della tesi.

Dalle accuse di mafia al riscatto morale 

Il suo passato legato a Cosa Nostra, secondo alcuni collaboranti che lo accusano, è solo un ricordo lontano, uno sbaglio commesso da ragazzo che Moscato ha cercato e cerca tutt’ora di riscattare attraverso il potere della cultura, dell’informazione e dell’istruzione, gli unici mezzi in grado di restituirgli una libertà ormai persa da anni. 

Come lui anche altri ristretti hanno deciso di dare una svolta alla propria vita prendendo o riprendendo in mano un libro scolastico. I dati del Ministero della Giustizia rilevati nel 2021, però, scoraggiano. Parlano infatti di 4.493 persone con una licenzia media superiore e solo 598 con una laurea. Prendendo in considerazione la Casa di Reclusione di Parma si contano al suo interno appena 36 studenti detenuti. Un numero ancora molto basso se si tiene conto che la popolazione carceraria italiana totale è di 54.841 persone. A tal proposito Moscato ci racconta anche la piaga del sovraffollamento mostrando come in alcuni istituti sia stata «raggiunta o superata la soglia del 200%, numeri non molto diversi da quelli che si registravano ai tempi della condanna della CEDU».

Morire di carcere 

I capitoli dell’elaborato, intrisi di aspetti quotidiani, mostrano dunque la parte più oscura del carcere spesso dimenticata dalla società. Tra gli argomenti che colpiscono di più c’è anche quello che tratta la triste realtà dei suicidi dentro le celle. Secondo il Dossier “Morire in carcere” a cura del Centro Studi di Ristretti Orizzonti, infatti, la situazione diventa di anno in anno sempre più allarmante. Solo quest’anno il numero di persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena sono 74, un numero che mai si era registrato in precedenza,su un totale di mille morti in 20 anni. Tragedie che spesso passano in sordina. A tal proposito, durante l’esposizione della tesi, Moscato ha voluto ricordare, in un momento particolarmente toccante, la lettera del Giudice di sorveglianza di Donatella. Il caso della ragazza, che si è tolta la vita nei mesi scorsi nel carcere di Verona, è diventato presto mediatico dopo che il Magistrato, durante il funerale, ha voluto manifestare il suo cordoglio e il suo pentimento sostenendo di aver fallito come figura rappresentativa dell’intero sistema. 

Un ulteriore tema che si lega con l’argomento appena affrontato, e che tra le altre cose potrebbe ridurre il numero di suicidi, riguarda la mancanza di personale nella sfera educativa. La Casa di Reclusione di Parma conta appena 4 educatori su 10 previsti su circa 687 persone detenute. «Negli istituti visitati – dagli operatori dell’Associazione Antigone – c’è in media un educatore ogni 80 detenuti ed un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti». Sono numeri impressionanti che evidenziano la moltitudine di lacune ancora da colmare per far sì che la pena venga umanizzata. Come sostiene lo stesso Moscato: «Va rinforzato il sistema delle relazioni affettive, vanno aumentate le telefonate, va evitato l’isolamento forzato dal mondo». La sua tesi di laurea fa emergere proprio l’importanza di investire tempo e denaro sulla rieducazione del detenuto, solo in questo modo il reinserimento nella società potrà restituire alla comunità uomini nuovi e migliori.

Quello che si chiede Moscato, però, è il quesito che resta in bilico tra le labbra dei più: ad oggi, tenendo conto della situazione in cui gran parte delle carceri italiane si trovano, si può parlare davvero di reinserimento?

di Laura Lipari 

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