Da Waldo a Ghost in the Shell. L’automazione incontra l’IA: ci sarà spazio per l’umanità?

Intelligenza Artificiale, Biologia Sintetica e automazione sembrano convergere in un unicum: la bionica. Che ruolo resterà all'umanità?

automazione ai

Waldo è il protagonista di un racconto omonimo datato 1940. A causa di una malattia che lo rende sempre più debole, Waldo inventa per se stesso e per il mondo, delle braccia robotiche (dalle dimensioni più varie) che, guidate a distanza da appositi guanti, possono imitare i movimenti delle sue mani.

Ottant’anni dopo, la parola “waldo” è ancora usata per indicare un dispositivo teleguidato che imita i movimenti umani, ma ancora non siamo davvero riusciti a costruire una protesi in grado anche solo di avvicinarsi alla naturale destrezza della mano umana; capace cioè di modulare finemente un’ampia gamma di movimenti e di forza. Lo sviluppo tecnologico in questo campo ha sicuramente già dato risultati degni di nota, ma una vera e propria “mano artificiale” sembra ancora lontanissima.

In questo servizio di SuperQuark del 2018 si parla del sistema Da Vinci: un robot chirurgico a comando remoto (un waldo) che permette al chirurgo di eseguire interventi di precisione.

Per la mano artificiale siamo dunque ancora in alto mare. Per la mente artificiale le cose non vanno meglio. Se è pur vero che i computer sanno fare calcoli con velocità e accuratezza inarrivabili per la mente umana, quando ci si scosta dalla pura potenza di calcolo, la situazione cambia molto in fretta. Strumenti sofisticati come ChatGPT possono in prima battuta stupire con l’apparente umanità delle loro risposte, ma basta un po’ di malizia in più per smascherarne i limiti. Buona parte dell’apparente capacità di discernimento di ChatGPT sembra infatti dovuta a una serie di filtri aggiunti a posteriori dagli sviluppatori; filtri che possono essere però aggirati ‒ come mostrato ad esempio da Matteo Flora ‒ con risultati imbarazzanti.

Potrebbe però esserci un’altra via. Anziché cercare di fare con le macchine ciò che l’uomo sa fare, si può provare ad usare elementi biologici per fare ciò che sanno fare le macchine; o almeno per fare ciò che vorremmo che le macchine facessero al posto nostro, possibilmente meglio e più in fretta. Prendiamo ad esempio un neurone, o meglio un “mucchietto” di neuroni. Collegati opportunamente a sensori adatti, si può far fare a questi neuroni ciò che sanno fare meglio: imparare. A ottobre 2022 un gruppo di ricercatori australiani ha annunciato di essere riuscito a insegnare a giocare a pong ad uno di questi “mucchietti di neuroni” coltivati in laboratorio.

Parafrasando una famosa fase del matematico francese Henri Poincaré, potremmo dire che un cervello è fatto di neuroni come una casa è fatta di pietre: un mucchietto di neuroni non è un cervello più di quanto un mucchio di pietre non sia una casa. Un grumo di neuroni coltivati in laboratorio non desta particolari dilemmi etici, meno ancora se questi neuroni vengono “coltivati” direttamente nel paziente, ad esempio per restituire funzionalità a una porzione danneggiata del cervello o del midollo spinale. Ma la questione etica non è risolta, è solo rinviata.

In quale momento un mucchio di pietre cessa di essere tale per diventare una casa? Qual è il numero minimo di granelli di sabbia necessario a creare un mucchio? Tre? Dieci? Quarantadue?

Quanti neuroni ci vogliono, e come devono essere organizzati, per creare una coscienza?

Questo genere di domande possono sembrare sofismi filosofici, e lo sono in certa misura, ma hanno anche risvolti molto pragmatici. In quale momento un ovulo fecondato smette di essere tale e diventa un individuo? Su questa domanda si combattono tuttora battaglie sociali durissime che causano sofferenza e morte.

Quando si tratta di coscienza siamo messi anche peggio: neppure sappiamo cosa sia, e la sensibilità individuale sul tema abbraccia potenzialmente ogni sfumatura possibile. Gli animismi attribuiscono coscienza alle foreste e alle forze della natura; Descartes riteneva che solo l’essere umano ne fosse provvisto e che gli animali fossero semplici automi; i sofisti più sottili potrebbero infine sostenere che ognuno può essere certo solo del proprio personale stato di essere senziente e che per tutti gli altri non si possa far di più che supporre per analogia.

Posizionare l’asticella del lecito, per quanto riguarda le intelligenze in provetta, potrebbe essere molto complicato. Anche perché la complessità di questi “mucchi di cellule” sta crescendo rapidamente. Oggi li si definisce più propriamente organoidi: strutture complesse, formate da cellule di più tipi diversi, organizzate tra loro in modo più o meno ordinato e coerente. È il mondo della biologia sintetica. Nel caso dell’intelligenza bio-sintetica ad esempio, ai neuroni si sono aggiunte altre cellule tipiche del cervello (gli astrociti), che oggi sappiamo essere a loro volta coinvolte come minimo nei processi di memorizzazione. Siamo ancora lontanissimi dalla complessità di un cervello propriamente detto, ma siamo un gradino meno lontanissimi di quanto non lo fossimo solo pochi mesi fa.

In una conferenza online organizzata dalla John Hopkins University sul tema delle Intelligenze Sintetiche Biologiche (Synthetic Biological AI), il Professor Lomax Boyd del Berman Institute of Bioethics, ha illustrato a grandi linee un modello di valutazione del grado di consapevolezza di un sistema complesso. Il modello è basato su una serie di parametri ‒ come ad esempio la capacità di percepire il tempo, la capacità di elaborare segnali visivi e tattili e la capacità di integrare queste percezioni in un unicum elaborativo. È una via promettente, ma una sua applicazione soddisfacente sembra ancora lontana: la scelta dei parametri e la loro quantificazione sembra comunque destinata ad avere una forte componente soggettiva.

Dal lato più squisitamente tecnico, gli organoidi ci ripropongono un problema già noto: interfacciare un sistema biologico ‒ basato sull’acqua, su interazioni molecolari fluide e che necessita di costante nutrimento per continuare a “funzionare” ‒ con un sistema elettronico ‒ tendenzialmente rigido e basato su metalli e su precisissimi percorsi di conducibilità elettrica ‒ è già una sfida in sé che non sembra avere soluzioni banali. Un’integrazione totale tra biologia e macchina come quella immaginata in Ghost in the Cell sembra essere ancora lontanissima. Eppure, anche se Neuralink di Elon Musk non ha ottenuto (per ora) l’autorizzazione alle prime sperimentazioni sull’uomo, qualche risultato incoraggiante in questa direzione già c’è.

Un paziente tetraplegico ha imparato a controllare “con la mente” un’esoscheletro che gli permette di camminare e di compiere alcuni altri movimenti di base (video in inglese dal canale Youtube di The Lancet, 2019)

Così, mentre “mucchietti di neuroni” e sofisticati esoscheletri già si contendono il privilegio di far tornare a camminare chi fino a ieri sembrava condannato per sempre all’immobilità, noi continuiamo a interrogarci sul quando e sul come queste due strade finalmente si incontreranno; su quello che succederà quando un “mucchietto di neuroni” abbastanza sofisticato diventerà capace non solo di giocare a pong, ma di manovrare autonomamente un vero e proprio waldo. Chi dovrà risarcire un paziente se un Da Vinci controllato da una bio-intelligenza dovesse commettere errori durante l’intervento?

Tra sogni di protesi che superino le prestazioni dell’originale biologico e intelligenze artificiali (ma non troppo) in grado di sollevarci dai lavori più tediosi e ripetitivi, forse un giorno non troppo lontano l’umanità potrebbe scoprirsi estromessa dall’equazione; potremmo cioè ritrovarci in un mondo nel quale ogni cosa possa esser fatta, meglio e più in fretta, dalla bionica (crasi delle parole biologia ed elettronica inventata dal Dott. Jack Steele nel 1954). Una società con più nulla da fare per un povero, difettoso umano, nella quale il più grande gesto di ribellione ‒ unico modo che ci resterà per urlare al mondo la nostra umanità ‒ sarà cliccare sui semafori.

di Giovanni Perini

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*