Ti prometto che staremo insieme: racconto di Carlotta Calderoni

Poesie e racconti è la rubrica di ParmAteneo dedicata agli aspiranti poeti e scrittori tra gli studenti dell'Università di Parma

Opera di Berthe Morisot

Ti prometto che staremo insieme

«Amara notte, cos’ho fatto per meritarmi questo?»

«Ssh, dormite, miss Feryll»

Martha spense la candela che teneva ancora in mano e si rimboccò le coperte. Le sue compagne dormivano già profondamente. Si raggomitolò, pensando che lei non avrebbe avuto la stessa fortuna.

Il collegio per ragazze Perkinson era uno dei più prestigiosi di tutta Londra, ma nessuna di quelle fanciulle sventurate l’avrebbe mai raccomandato a nessuno.

Martha era figlia di un ricco commerciante di tessuti e di una stilista di Parigi. Jacqueline non avrebbe mai potuto abitare a Londra a lungo, così un giorno aveva scritto una lettera di addio, preso la sua prestigiosa valigia con tutti i suoi vestiti e abbandonato il marito e la figlia. Ingrata, nemmeno un vestito per salutare!

Nonostante quest’episodio infausto, Martha ambiva a fare l’insegnante, ma sapeva che sarebbe arrivata al massimo al ruolo di istitutrice. La formazione non le mancava, ma ancora le donne avevano ruoli marginali nella società di fine XIX secolo e aveva sentito dire che spesso, anche nelle scuole più piccole, le insegnanti erano imparentate con il preside o avevano, comunque, avuto modo di entrare “per conoscenze”. Strano modo per dire “raccomandate”, n’est pas?

Miss Feryll, una quattordicenne slanciata dall’incarnato estremamente pallido, non aveva certo quello che le serviva, né le conoscenze, né le parentele.

Dopotutto, il Perkinson era proprio quello che faceva al caso suo: tra lezioni di cucito, lingue straniere e musica, Martha avrebbe presto dimenticato quel sogno sciocco e sarebbe diventata la perfetta futura moglie di qualche banchiere o, perché no, persino di un nobile. Cosa volere di più dalla vita?

Ora, però, a tenerle occupata la mente non c’era la formule de politesse, imparata alla lezione di francese quel giorno, bensì il giovane diciassettenne che aveva incontrato una settimana prima, al parco.

Un incontro banale, ma sufficientemente degno di nota per essere riportato: lui le si avvicina perché le è appena caduto il ventaglio, lei sbatte le ciglia furiosamente nel vedere quel volto nuovo e poi il giovane si congeda con un sorriso. Et voilà notre histoire!

Martha non aveva mai provato quel tenero batticuore che tutte le altre raccontavano, invece, di aver sperimentato almeno una volta.

L’incantevole Betthy aveva avuto una storia con il giardiniere della villa in cui abitava. Oh, era già una sedicenne al tempo e c’erano stati solo baci tra i due. Ancora pura come una rosa bianca, la nostra Betthy.

E poi c’era Rose, la magnifica Rose. A dispetto del nome, della rosa non aveva nulla, se non le spine. Aveva quindici anni quando si era invaghita del suo servitore ventenne. Purtroppo, era un amore impossibile e lei aveva avuto solo notti insonni e tachicardie insensate. Povera Rose.

Ci sarebbero tanti altri deliziosi esempi, ma la vie è troppo breve per elencarli tutti. Inoltre, la vera storia è quella della petite Martha, la ragazza dagli occhi d’agata.

Quei suoi occhi da felino avevano ammaliato il giovane Wilson, pronto ormai ad entrare nell’esercito di sua maestà. Quale maggiore onore per il figlio di un famoso orafo! Il padre già gli aveva insegnato tutti i trucchi del mestiere, ma, ahimè, l’unico oro che voleva vedere era quello delle medaglie al valore. La vanità, c’est ça la faute.

D’ogni modo, i due ragazzi erano impegnati in una ufficiosa relazione, uno scambio di lettere piuttosto innocente, ma che prometteva grandi risvolti.

Lui le scriveva con una grafia molto elegante, da vero gentleman, riscattando le sue umili origini. Lei lo tediava coi suoi francesismi e il suo sfarfallare con l’inchiostro. Le mogli di uomini facoltosi non erano tenute a saper scrivere bene, dopotutto. Avrebbero avuto la servitù per queste scomode incombenze.

Martha tentava di prendere sonno, invano. La tormentavano le parole del ragazzo: “Vi prometto che staremo insieme”. Suonavano cariche di promesse. E si conoscevano da una settimana appena, mon Dieu!

Lei era impaziente e nemmeno le frivole educatrici del Perkinson potevano spegnere la fiamma del nascente amore. Il suo amato le chiedeva di presentarsi al parco dove si erano conosciuti alle tre del pomeriggio seguente, possibilmente sola.

“Vi prometto che staremo insieme”. Di nuovo quelle parole, ma su, via, sparite! Ah, Martha si addormentò, heureusement.

«Buongiorno, mie care. Oggi impareremo a cantare qualche motivetto, non siete contente?»

Ah, quale migliore esercizio mattutino? Martha era a dir poco impaziente di far sentire a tutte la sua mediocrità nel canto.

«Miss Feryll, vedo che vi annoiate. Perché non venite qui a far sentire la vostra voce?»

Oh, pauvre pétite, aveva solo sbadigliato per la stanchezza! Un po’ di pietà!

«Mi dispiace per lo sbadiglio, Mrs Charles. Vengo subito da voi»

Inutile dire che, fra tutte quelle cornacchie gracchianti, Martha era l’étoile indiscussa. Cantarono per un’ora abbondante, fra errori, risatine e piccole liti.

«Miss Feryll, complimenti. Non credevo aveste una così bella voce»

Migliore della sua senz’altro, diciamo la verità.

L’ora successiva: francese. Anche in questo Martha non poteva che eccellere. Sua madre era parigina da generazioni, quindi aveva insegnato a sua figlia a parlare fluentemente quella lingua elegante. L’unica eredità che le avesse lasciato.

«Ehi, Martha, come si scrive questa parola? Martha?»

Laissez-la tranquille, insomma. «Così, Elizabeth. Vuoi che scriva più chiaramente o si capisce?»

L’altra le sorrise con gratitudine e tornò alla sua produzione. Dovevano descrivere il loro soggiorno al Perkinson. Entusiasmante, oserei dire. Con quale aggettivo avrebbero descritto la zuppa di legumi che mangiavano ogni lunedì, mercoledì e venerdì? E che dire del dormitorio comune e quelle tende ingiallite dagli anni? Il fascino del vecchio.

Ma anche quell’ora filò leggera e l’educatrice ritirò le produzioni, con la promessa di riportarle il giorno dopo, corrette.

Le tre del pomeriggio non accennavano ad arrivare. Martha si mangiucchiò le unghie in preda all’ansia e all’emozione e il suo pranzo rimase quasi intatto. Le amiche, per pura solidarietà, mangiarono anche la sua porzione. Lei si ritirò nel dormitorio per rileggere la lettera.

Il Wilson della sua memoria era biondo, alto, dal fisico asciutto e muscoloso, gli occhi color terra di Siena bruciata.

Quando arrivò al parco, da sola, lo trovò su una panchina. Il modo in cui sedeva suggeriva che si stava già preparando alle pose militari: spalle perfettamente dritte, petto in fuori, schiena perpendicolare al terreno, non un grado sessagesimale in più, no, mesdames et messieurs. Postura impeccabile.

C’è un segreto da svelare, però: lui l’aveva vista arrivare e si era sistemato per bene. Fino a due minuti prima era beatamente stravaccato sulla panchina, stile ragazzaccio dei quartieri popolari.

In più, per attirarla, aveva deciso di non guardare nella sua direzione mentre lei s’incamminava verso di lui con quella grazia da venditrice ambulante. E menomale, direi. Aveva la fretta di una che venisse seguita da qualcuno.

«Miss Feryll», le disse soltanto, con voce chiara, ma con un che di sorpreso, come se fosse ammaliato da lei. Aveva letto tanti libri quella settimana, per capire come comportarsi e conquistarla a colpo sicuro.

«Wilson», rispose lei. Non ricordava il suo cognome. Era Jenkins per caso? Bah.

Il Wilson reale aveva gli occhi color fango e i capelli di un castano chiaro anonimo. Niente muscoli ancora, solo una posa eccellente, ma scomoda per lui.

Martha ne rimase un po’ delusa, però l’amore non guarda in faccia nessuno e nemmeno lo fece lei.

«Vi ho convocato qui perché desideravo parlarvi. Vi prego di non interrompermi, mi riesce difficile aprire il mio cuore con una così graziosa ragazza»

Oh, ma che adulatore.

«Questo è del tutto nuovo per me, come credo lo sia per voi»

Di nuovo un’altra pausa. Contò fino a cinque e poi riprese, con lo stesso tono appassionato: «Mi rendo conto della nostra differenza d’età, tuttavia, Miss Feryll, Martha – vi dispiace se vi chiamo così? – la vostra bellezza mi ha colpito dritto al cuore e ora voi soggiornate costantemente nei miei pensieri. Quasi me ne vergogno, lo ammetto»

Dicendo questo, le sue gote s’imporporarono, per sottolineare le sue parole.

«Non voglio, però, credere che per noi non esista un futuro. Se lo vorrete anche voi, saremo una cosa sola. Vi prometto che staremo insieme»

Martha era arrossita come lui, il cuore martellava violentemente nel petto, aveva la bocca riarsa. Toccava a lei parlare, dopo quel discorso così profondo e “sincero”.

«Wilson, possiamo sederci un momento?»

La pauvre rischiava di svenire, era un po’ pallida. Il giovanotto le prese entrambe le mani tra le sue, una volta seduti, e la scrutò in volto, scostandole una ciocca di capelli sfuggita alla crocchia.

«Siete cerea, state bene?»

Le arrivò il suo alito caldo e profumato di menta. Erano incredibilmente vicini. Il sangue riaffluì sul volto di Martha.

«Sì, grazie, ora va meglio. Questo caldo inizia ad essere opprimente»

«Spero che non vi risulti intollerabile anche la mia presenza, non intendevo turbarvi»

Wilson sceglieva le parole con cura, vi metteva sentimento. Sì, la trovava carina, forse un po’ troppo smunta, ma, per i suoi quattordici anni, già mostrava le curve di una sedicenne.

«No, no, non pensatelo, nemmeno per un istante. Sono molto lieta che voi siate qui con me, davvero»

La distanza tra i due si accorciò ulteriormente. A lei non dispiacque.

«Quindi anche voi provate per me quello che io sento per voi? Siate sincera, vi prego»

Martha riuscì solo ad annuire, ormai talmente rossa in volto da sembrare un’altra.

«Oh, Martha, diamoci del tu, sono stanco di questo “voi” che ci allontana»

E così dicendo, si avvicinò ulteriormente. Ormai sentivano l’uno il calore dell’altra.

«Sì, Wilson, basta con queste raffinatezze. Fra fidanzati non bisogna stare lontani»

La prese in parola e, silenzioso, si avvicinò a lei, le sfiorò la base dell’orecchio sinistro e poi  le prese il volto con entrambe le mani. Posò delicatamente le sue labbra su quelle di lei e iniziò a muoverle. Non aveva esperienze in quel campo, come lei del resto. Tuttavia, il loro bacio fu dapprima riservato e dolce, poi più adulto. Si staccarono senza fiato.

«Wilson», mormorò con un sorriso sciocco ed ebbro. Ormai era persa nell’amore.

«Oh, Martha, la mia Martha»

Lui si avventò nuovamente sulla petite, ma con estrema dolcezza, lasciando che fosse lei, poi, a dargli il consenso per un bacio più appassionato.

Ah, l’amour! Se solo la petite dagli occhi d’agata si fosse resa conto che il sentimento del suo innamorato non era sincero, probabilmente anche il suo si sarebbe raffreddato. Ma lei era troppo vittima, ormai, di quel dolce inganno, troppo giovane e ingenua per capire la verità.

«Le tue labbra sono incredibilmente morbide. Mi piacciono», le sussurrò lui all’orecchio e poi le mordicchiò il lobo. Capì di essersi spinto un po’ troppo in là quando lei si alzò bruscamente dalla panchina, guardandosi le scarpette bianche ora sporche d’erba, visibilmente a disagio e ancora molto rossa in viso.

«Scusami, è ora che io torni al collegio. Fra quindici minuti ho lezione di danza»

Wilson si alzò con misurata lentezza, si sistemò i vestiti e la guardò negli occhi con ardore. «Certo, amore mio. Va’ pure. Avrò l’occasione di rivederti domani?»

«Ti prometto che staremo insieme», gli rispose lei con audacia, ripetendo le sue ormai note parole.

Lui la abbagliò con un sorriso speciale, tutto per lei. Dato che era più alto, la avvolse in un abbraccio, dandole un senso di protezione che mai aveva provato prima d’ora. Infine, si concesse un ultimo casto bacio, rubandolo a quelle labbra così tenere e giovani. Lei non si oppose e, anzi, lo trovò un gesto da vero gentleman poiché non aveva preteso un bacio come quelli di prima, quasi inappropriati per la sua età.

«Arrivederci, Martha»

Rimase lì per guardarla mentre andava via. Camminava con più leggiadria rispetto a prima, sembrava molto più donna. E lui avrebbe carpito il fiore appena sbocciato.

Il giorno seguente tutto il collegio sapeva che Martha era innamorata. Le educatrici avevano trovato le sue lettere la sera prima e avevano capito dov’era stata quel pomeriggio. In punizione per sempre: le gran dame non si scambiano illecite lettere d’amore, né s’incontrano di nascosto con un uomo.

«Miss Feryll, siamo costrette a chiamare vostro padre. Dev’essere informato della vostra cattiva condotta», disse la preside. Donna interessante Mrs Lloyd, piuttosto bassa, ma robusta. Esibiva i vestiti color rosa confetto come se fossero di moda.

«Naturalmente, signora preside. Sono pronta ad assumermi le mie responsabilità»

Ma ci voleva più di una punizione elaborata da un maialino vivente per fermarla.

«Molto bene, ora andate. Vi aspetta la lezione di cucito. Mi raccomando, fate in modo che questa sia l’ultima volta che mi venga riferita una tale aberrante notizia»

Eh, ma che paroloni!

Martha se ne andò col sorrisetto da monella. Nessuno le avrebbe impedito di vedere il suo caro Wilson, nossignore.

Così, dopo le lezioni, nel caos che precedeva il pranzo nella grande sala, lei sgattaiolò nel dormitorio, prese tutte le sue cose e si calò dalla finestra con un lenzuolo. Per fortuna, il dormitorio era al secondo piano dell’edificio e si affacciava sul cortile interno. Ad accoglierla, il tenero prato di giugno.

Martha non si perse d’animo e si gettò di fretta verso il muro che la separava dalla libertà. Si arrampicò alla bell’e meglio e voilà, les jeux sont faits.

Arrivò al parco con il fagottino e Wilson non riuscì a trattenere una risata.

«Oh, my dear, ma cos’hai preso su per il nostro incontro?»

«Wilson, non ridere di me, ti prego! Hanno scoperto delle lettere, di noi. Sono dovuta scappare»

A queste parole, il giovane sbiancò. Il gioco si complicava in modo alquanto spiacevole. «Mi dispiace davvero tanto. Dove andrete ora?», chiese con ritrovata compostezza. La sua mente lavorava veloce: avrebbe potuto chiederle di trasferirsi da lui, ma non era conveniente per un ragazzo che intendeva entrare nell’esercito. Avrebbe dovuto nasconderla nel retrobottega del padre, dove andava di rado.

D’altronde, la fuga amorosa era un pensiero ancora più nauseabondo per lui. Il corpo della quattordicenne non valeva così tanto. Lui aveva i suoi sogni, le sue ambizioni…

Mon Dieu, stava pensando a come averla senza rimetterci troppo! Farabutto!

L’ignara Martha, facendosi scura in volto, replicò: «Non ho dove andare, in realtà. Mio padre viaggia spesso e la nostra casa è lontana. Perché non mi ospiti tu?»

Già, perché? «È proprio la soluzione che stavo pensando. Ho un posto che fa al caso nostro, però sappi che i miei genitori non devono saperlo, non ancora almeno»

I suoi occhi bruciavano di sincerità e di preoccupazione. In realtà, era stato costretto ad accettare quella sistemazione.

«Possiamo andare anche ora? Così almeno poso le mie cose», domandò lei con innocenza. Le sembrava di amarlo ancora di più rispetto al giorno prima. Non riuscì a trattenersi e lo baciò sulla guancia con impeto, gettandogli le braccia al collo. Ah, ma lui non poteva accontentarsi di quel bacio da ragazzina.

«Posso baciare le tue labbra morbide?»

Lucia si svegliò all’improvviso. Il suo gatto Didou era salito sul letto e si era accoccolato sopra le sue gambe.

Vicino a lei c’era ancora il libro che stava leggendo la sera prima. Erano le sette, ora di alzarsi e prepararsi per una nuova giornata in ufficio.

«Niente più peperoni la sera», disse al gatto semidormiente. Poi, si alzò e ascoltò la segreteria telefonica. C’era un solo messaggio, del suo fidanzato Lorenzo:

«Spero tu abbia dormito bene. Ti prometto che staremo insieme, Martha»

Lucia sorrise al cellulare e andò a prepararsi la colazione.

di Carlotta Calderoni

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