Tutti sanno senza sapere niente: quando l’anonimato non impedisce il giudizio

Non conoscere il nome e cognome della donna che nella giornata di Pasqua ha lasciato il figlio biologico in "Una culla per la vita" non ci ha privato dell'opinione circa il suo gesto

(foto di Ospedale Policlinico di Milano)

La donna che ormai una decina di giorni fa ha lasciato un bambino – che verrà poi riconosciuto come Enea – in Una culla per la vita della clinica Mangiagalli di Milano aveva tutto il diritto di rimanere anonima. Ma anonimo è rimasto solamente il suo nome. La sua decisione, proprio come lei, è stata sulla bocca di tutti: plagiati e alterati da speculazioni senza alcun fondamento.

Si è strumentalizzata, caratterizzata, si sono delineate le sue “mancanze” in qualità di madre, si sono ‘accertate‘ le sue problematicità e quindi l’impossibilità a mantenere il figlio, le si è dato volto e forma. La donna è rimasta anonima, sì, ma in realtà è stata conosciuta da tutti; oggetto, allo stesso tempo e in egual misura, di biasimo e compassione.

Il primo giudizio avanzato dai media e dall’intera popolazione italiana è stato del tutto implicito, di natura lessicale, quasi impercettibile: la riduzione dell’intera questione e dinamica ad un solo verbo, abbandonare. “Madre abbandona il figlio”, si legge ovunque.

Vi è implicita un’accusa, soprattutto in un contesto come quello italiano, in cui la realizzazione e massima fortuna di ogni donna ancora stenta a discostarsi da quello di crescere un bambino ‘proprio’; si diviene madri nello stesso momento in cui si partorisce, non vi possono essere deviazioni o ripensamenti, si tratta di un passaggio di status automatico (da donna a madre), con tutte le sue relative implicazioni.

Vi è un’incapacità di lettura e una sorpresa collettiva, non si riesce a comprendere come si possa compiere un atto del genere, come si possa abbandonare il proprio figlio. A questa incredulità sovvengono le scusanti che, evidentemente, hanno favorito la comprensione degli eventi da parte delle persone non coinvolte. È un processo mentale abbastanza comune e che tutti adoperiamo nel nostro piccolo: ciò che non capiamo cerchiamo di piegarlo a favore del nostro giudizio, adducendo motivazioni e ipotesi che invece fanno parte del nostro repertorio di conoscenze.

‘Aveva problematiche economiche’, è ciò che segue alla notizia di abbandono. ‘Per non perdere il lavoro’, dicono altri. Tutti diventano in poche ore portavoce delle proprie verità arrogandosi un diritto al giudizio e libertà di commento sulle questioni di una donna che nemmeno saprebbero chiamare per nome, di cui nessuno conosce la storia.

A soli sette giorni di vita Enea scala le classifiche di tendenza su Twitter. Appelli di compassione, auguri, condanne alla madre: il fatto diviene un vero e proprio caso mediatico. Tutti ne parlano e tutti hanno un’opinione a riguardo. Il web è riempito da frasi come: “Ma secondo voi cosa doveva fare, poverina?” “Ha compiuto un atto di estremo coraggio” “Lo ha abbandonato senza pensarci due volte”: la donna protagonista di ogni faziosa speculazione si è trovata a rivestire il ruolo di vittima e carnefice della stessa società.

Il caos che ha caratterizzato i giorni successivi all’utilizzo di Una culla per la vita ha, però, una doverosa premessa: in Italia vi è sin dagli anni 2000 una legge che permette il parto in anonimato e il conseguente mancato riconoscimento della maternità del bambino; l’iter utilizzato dalla donna è del tutto sicuro e per niente lede alla salute del nato.

Il primo appello alla madre biologica del bambino è, però, proprio del Professor Fabio Mosca, direttore del reparto di neonatologia della Mangiagalli di Milano (lo stesso ospedale che offre il servizio di cui la donna ha usufruito). Se ci dovessi ripensare, hai dieci giorni di tempo. Ci sono tante persone che sono pronte, a darti un aiuto a tenere il tuo bambino, dice alla stampa tra un accenno sensazionalistico e l’altro, quasi paradossale.

(via facebook: Milano fanpage)

La stessa figura che, mettendo a disposizione tale servizio, avrebbe dovuto mantenersi esente da ogni tipo di giudizio è il primo a offrire un aiuto in virtù di un ‘ripensamento’. E se inviti a ricrederti, non c’è dubbio che la tua scelta sia opinabile. È stata addirittura resa pubblica parte della lettera che la donna aveva lasciato insieme al bambino: doveva servire per presentarlo ai medici che se ne sarebbero presi cura, invece, è divenuta punto di partenza per le più assurde e controverse teorie per giustificare l’abbandono.

Cosa c’è di anonimo in tutto questo? Davvero ripercorrere a ritroso i gesti di una persona volendone carpire anche il sentimento, in maniera completamente decontestualizzata fa parte di quella garanzia di privacy che il servizio stesso pone come fondamento?

Da questo momento in poi è un appello continuo. Un continuo “ripensaci” indirizzato a una donna o ragazza ‘colpevole’ di aver preso una decisione che concerne e riguarda lei soltanto. Al direttore Mosca poi si aggiungono altri personaggi noti, Ezio Greggio ed esponenti di partiti politici. Tutti con la mano protesa in aiuto con parole giudicanti: è questo il rispetto delle scelte altrui? Il problema si trova alla base: strutturale, consistente, quasi tangibile.

Forse, infatti, il motivo per cui tutti hanno avuto da ridire su questa storia è perché tocca un punto focale e importantissimo della cultura italiana: la maternità, sacrosanta e obbligatoria, per la quale nessun sacrificio è mai ritenuto abbastanza. La questione è divenuta solo strumento, oggetto, per l’avvaloramento di tesi che avremmo portato avanti, in sua assenza, allo stesso modo, solo attraverso un diverso iter; che si tratti di un’opinione a favore o contraria.

Ma alla donna, ricordiamoci, era garantito l’anonimato. Oltre ad una questione di privacy, in virtù di una garanzia del rispetto della scelta intrapresa, doveva servire affinché nessuno potesse puntare il dito e dire “è lei che ha abbandonato il figlio”. Ma a poco è servito. Il nome non lo sappiamo, ma di lei forse abbiamo creduto di sapere più di quanto non sapesse lei stessa. L’anonimato è stato mantenuto, ma il dito lo abbiamo puntato allo stesso modo.

di Claudia Orlandi

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