Junk – Armadi pieni: il nuovo documentario inchiesta sul fast fashion

Si parla da anni di ‘moda sostenibile’, ma quanto è realmente cambiato? Un viaggio denuncia attraverso lo smaltimento del settore tessile e di tre continenti raccontato da Matteo Ward, partendo dalle montagne tessili del Chile fino ad arrivare all’inquinamento da PFAS delle acque del Po, in Veneto

Il quattro aprile sono state rese disponibili le prime due puntate della docu serie Junk – Armadi piedi, co-prodotta da Will Media Italia e Sky Italia, lanciata gratuitamente sul canale YouTube di Sky Italia e, in seguito, resa disponibile on demand su Sky e NOW.

Portavoce del progetto e guida d’eccezione in questo viaggio denuncia è Matteo Ward, imprenditore, attivista, divulgatore green e co-autore del documentario, scritto e diretto da Olmo Parenti, già noto per il suo documentario One Day, One Day, sulla vita dei braccianti nelle baraccopoli di Borgo Mezzanone, e Matteo Keffer, entrambi del collettivo creativo A Thing By.

Per una totalità di sei puntate, il team porta gli spettatori in un viaggio nei continenti di Asia, Africa ed Europa, scoprendo diverse realtà locali (e non solo) coinvolte nell’industria della produzione e, soprattutto, dello smaltimento dei vestiti, raccontata attraverso immagini, riprese e testimonianze di ecosistemi e persone che subiscono direttamente l’impatto negativo del fast fashion.

La docu serie, pensata non solo per gli ‘esperti del settore’, nasce con l’obbiettivo di puntare i riflettori sui retroscena della moda e, più in generale, sul settore tessile, svelando il reale impatto che questo ha su ambiente e su miliardi di persone in tutto il mondo, dedicando ogni puntata a un paese e a un tema di impatto sociale ed ambientale diverso.

Il reale obbiettivo è creare consapevolezza nelle persone nelle loro abitudini di acquisto, per restituire a tutti la certezza che il cambiamento è ancora possibile, ma che dipende anche (e soprattutto) da noi, come dichiara lo stesso Ward alla fine dell’ultimo episodio della docu serie: “Siamo arrivati alla fine di Junk, ma parlare di fine forse non è così corretto, perché quello che ci auguriamo è che questo progetto sia per voi un nuovo punto di partenza, come lo è stato per noi. Un percorso a vivere quello che indossiamo in un modo più responsabile e consapevole possibile non è così semplice e scontato”.

Dal Chile fino al Veneto: i sei paesi – simbolo di Junk

La prima tappa è in Chile, luogo dove si trova una delle discariche tessili più grandi di sempre, nel Deserto dell’Atacama, anche definito “Cimitero di Atacama” il quale è stato al centro dei social e della stampa di tutto il mondo per questo avvenimento, nel 2022. A un anno di distanza Ward e la sua squadra sono andati sul luogo per cercare di scoprire la vera storia di quei vestiti, da quando sono arrivati in Chile fino a oggi.

Si scopre così una realtà fatta di mercati pieni di vestiti di seconda mano, scartatati dalle aziende o dagli stessi cittadini, che danno però da vivere a dozzine e dozzine di persone, come racconta la presidentessa della sezione del mercato di Atacama: “Mi dà fastidio che si veda sempre il negativo di questo problema e mai il positivo: la gente vive di questo. Allora cerchiamo una soluzione, e cerchiamo di aiutare, perché alla fine dei conti siamo noi che viviamo questa realtà, non chi ci critica, loro stanno in ufficio”.

Si passa così al Ghana, più precisamente nella capitale di Accra, dove si trova Kantamato, il mercato di vestiti di seconda mano più grande del mondo, dove ogni settimana arrivano 15 milioni di vestiti da smaltire, dei quali circa il 40% finisce in discarica, creando così una delle più grandi discariche di rifiuti tessili.

Obroni Wawu”, ovvero “vestiti dell’uomo bianco morto”, così vengono chiamati dai ghanesi i vestiti che arrivano, perché in Africa gli abiti vengono buttati solo quando si muore, stupendosi inizialmente di quanti bianchi passassero a miglior vita; le cose da allora sono cambiate, ma questo nome per identificare i vestiti di seconda mano è rimasto.

Questi capi, a differenza di come veniva raccontato in Chile, sono un’opportunità solo per i grossisti, mentre per i venditori e per la popolazione risultano solo un problema o, in ogni caso, un lavoro che chiamano “dalla mano alla bocca”, perché appena sufficiente per sfamare i figli.

Viene così affrontato nuovamente il tema degli scarti, come spiega anche l’attivista Ward sui suoi social media, mostrandoci immagini di vita quotidiana per gli autoctoni, e impensabili per noi in Occidente, dove “la moda crea tanta bellezza, ma che in Africa ha creato l’inferno”.

Arrivano poi in Asia, dove la prima fermata è il Bangladesh, secondo produttore di vestiti al mondo dopo la Cina, primato conquistato grazie alle scarse condizioni di lavoro, agli stipendi che rasentano lo sfruttamento e alla sistematica oppressione delle libertà fondamentali dei milioni di lavoratori del settore tessile.

Ward si chiede cosa sia cambiato (e cosa no) a distanza di dieci anni dal tragico crollo dello stabilimento tessile di Rana Plaza di Savar, il 24 aprile del 2013, per mancata manutenzione, causando più di 2000 feriti e che portò alla morte 1138 giovani lavoratrici, schiacciate sotto le macerie: il più grande incidente avvenuto in una fabbrica tessile.

Oggi a Dhaka, capitale e luogo del crollo, di questa tragedia restano una lapide e un grigio monumento.

Il team fa poi tappa in Indonesia, paese produttore del rayon, conosciuto come viscosa o ‘seta artificiale’, la prima fibra tessile artificiale della storia, nata negli anni Venti e di seguito importata, derivante dalla cellulosa.

Ad oggi, però, ci sarebbe un serio problema di sovrapproduzione, la quale sta mettendo a dura prova la sopravvivenza di foreste millenarie e di migliaia di specie animali e vegetali, a causa del disboscamento di queste foreste pluviali per la produzione di viscosa, annientando così in modo sempre più preoccupante la biodiversità del Paese.

Il viaggio prosegue in India, nel quale Ward segue la produzione di una t-shirt di cotone in ogni sua fase, per capire come nasce la più classica delle magliette di cotone, e soprattutto di quale sia il suo reale costo, iniziando il percorso dai campi di cotone fino alle tintorie e agli impianti di riciclo.

Si scopre così come una richiesta sempre maggiore della produzione intensiva del cotone abbia stravolto millenni di cultura della coltivazione di questa pianta, svelando una verità complessa e insostenibile per l’ambiente e per le persone, definita da un sistema che esige da una pianta delle performance innaturali.

Indonesia e India raccontano il problema della deforestazione e della depauperazione di territori che non sono nostri, ma che avviene per il nostro modo di consumare.

Nell’ultima tappa Ward fa ritorno in Italia, più precisamente in Veneto, per raccontare i problemi che abbiamo “anche a casa nostra”: nel panorama poco rassicurante dell’industria tessile l’Europa non manca a fare capolino.

Da decenni, nel vicentino si produce una sostanza idrorepellente soprannominata PFAS, utilizzata per creare giacche e scarpe a prova di acqua; tuttavia, l’incredibile resistenza di questa sostanza è allo stesso tempo la sua più grande disgrazia e, soprattutto, la nostra.

In quest’ultima puntata Matteo Ward fa ritorno a casa in tutti i sensi, poiché originario di Vicenza, dove dagli anni Settanta ad oggi, un paesino poco distante chiamato Trissino è base di una grande fabbrica produttrice di PFAS.

Solo a distanza di anni si è però scoperto che gli scarti di produzione di questa azienda venivano rilasciati nel territorio, avvelenando così la seconda falda acquifera più grande d’Europa e le centinaia di migliaia di persone che ne consumavano l’acqua, nelle proprie abitazioni in modo diretto, ma anche attraverso l’irrigazione dei campi, contaminando anche i raccolti e, di conseguenza, la catena alimentare.  

Ad oggi, il Tribunale di Vicenza ha aperto l’inchiesta sull’avvelenamento delle acque, ma non sul danno subito dai lavoratori in fabbrica. Il paradosso, è che mentre i PFAS continuano a depositarsi nei corpi dei cittadini, non si ha ancora una tecnologia per purificare il sangue, dovendo solo cercare di starne alla larga.

La docu serie termina con un video messaggio di Ward, nel quale (come nel primo episodio) lascia un codice QR, il quale riconduce ad una piccola guida che Will Italia e Sky Italia hanno creato per metterci nelle condizioni di migliorare noi stessi e il nostro irrefrenabile bisogno di comprare abiti low cost, e lasciarci con un messaggio di speranza e fiducia nello spettatore come singolo e come componente fondamentale di qualcosa di più grande: il futuro dell’ambiente.

di Beatrice Guaita

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