La vita di chi resta: Matteo B. Bianchi A Parma racconta la sua storia di sopravvissuto

Ospite a Scintille BookClub, lo scrittore spiega come il libro sia dedicato a chi resta dopo il suicidio di una persona cara: "L’ho scritto pensando a loro: ho scritto il libro che avrebbe fatto benissimo a me"

Matteo B. Bianchi, scrittore, editor, autore televisivo e di podcast, il 4 aprile ha aperto la terza edizione del festival Scintille di editoria, organizzato da Scintille Bookclub di Camilla Mineo e Caterina Bonetti, con il suo ultimo romanzo “La vita di chi resta”, edito Mondadori. Un libro che parla di una perdita improvvisa di una persona molto vicina allo stesso autore, e di come “si parli poco del suicidio, e non si parli affatto di coloro che rimangono, mai e da nessuna parte” spiega Bianchi.

“La scienza non vuole occuparsene di questa cosa, è un rimosso collettivo; devi essere tu a fare i conti con questo silenzio assordante e decidere di essere tu ad alzare la voce” continua l’autore.

Presente all’incontro, per i saluti iniziali, Maria Laura Bianchi, vicepresidente della Fondazione Cariparma, fondazione che, grazie al bando “Leggere crea indipendenza” vinto da Scintille di editoria, ha contribuito alla realizzazione del festival.

La vicepresidente si è detta “molto contenta” di aver partecipato alla presentazione del festival, poiché “il bando è stato immaginato per promuovere e stimolare la lettura all’interno del nostro territorio, perché siamo convinti che sia uno strumento fondamentale per l’inclusione sociale, economica e culturale soprattutto, e questo progetto rispecchia appieno questa idea, dando alla città un’offerta culturale innovativa”.

I sopravvissuti: le vittime dimenticate del suicidio

A dialogare con lo scrittore la giornalista Giovanna Pavesi, che introduce l’ospite e il suo nuovo romanzo descrivendo la scrittura di Bianchi come “nitida, diretta e delicata quando serve, perché racconta di un fatto privato, molto impattante”; citando lo stesso autore: ‘La gente chiederà, e io non saprò cosa dire, per mesi, per anni, per sempre’.

Ci ho messo ventidue anni per iniziare a scrivere questo libro, – spiega l’autore – e per ventidue anni ci ho pensato, ma non ho mai scritto nemmeno una riga, non ho mai preso nessun appunto, era come un’idea che non mi abbandonava, ma continuavo a rimandare questo momento, per tanti motivi. Uno di questi motivi, – continua – è perché il suicidio è uno dei più grandi tabù della società contemporanea, non se ne parla mai, o perlomeno, è presente nei romanzi e nei film e nelle serie tv, ma viene sempre trattato in maniera romantica, qualcosa che però si concentri su quel gesto e sulle conseguenze di quel gesto non c’è”.

L’ospite parla di quanto fosse necessario per lui “parlare di qualcosa di cui tutti gli altri hanno sempre taciuto, arrivando così, ad un certo punto, a capire che fosse essenziale spezzare questo silenzio”. Per l’autore però, come racconta al pubblico, “dal punto di vista emotivo è stato molto strano, perché è molto difficile parlare di questo tema alle persone che hai vicino, e scrivere un libro significa fare questo: essere di fronte a centinaia di sconosciuti e parlare della cosa più dolorosa della mia vita”.

“Per questo motivo ho aspettato tanto, – racconta Bianchi – dovevo avere la forza emotiva necessaria per raccontare questa storia, e la forza emotiva per affrontare tutto quello che comporta la pubblicazione di un libro. Passare da una situazione che ho tenuto quasi segreta, che improvvisamente diventa extra-pubblica”.

fonte: pagina Facebook di Matteo B. Bianchi

Ti sei mai pentito di portare avanti questo progetto?” chiede Pavesi. “Non mi sono mai pentito” risponde Bianchi che aggiunge di essere contentissimo di averlo fatto per “tanti motivi: primo fra tutti l’eco che ha creato questo romanzo. Ero convinto che questo libro sarebbe stato per una nicchia di lettori, invece quello che è successo è stato che è esploso, cosa del tutto inaspettata”.

“Però sono contento – continua l’autore – perché ho capito quanto questo libro stia colmando un vuoto e quanto sia arrivato a toccare tanta gente che io speravo di toccare; il libro è dedicato ai sopravvissuti, proprio perché l’ho scritto pensando a loro: ho scritto il libro che avrebbe fatto benissimo a me, se l’avessi letto quando mi è successa questa cosa”.

“Da lettore, – spiega l’autore – sono molto convinto che la narrativa, su un tema come questo, riesca a trasmettere di più e raggiungere molto più a fondo le emozioni rispetto a qualsiasi altra cosa”.

“Avrei potuto scrivere un saggio o un’inchiesta, – spiega – ma ho scelto proprio la forma narrativa perché sono io stesso un lettore e, a volte, capisco meglio una situazione dentro un romanzo piuttosto che in un approfondimento. Credo sia proprio diverso lo scopo, la narrativa ti permette di arrivare anche a svelare degli aspetti emotivi e intimi rispetto a quello che un servizio del telegiornale non ti permette di fare”.

Continua specificando il fatto che per la società in senso lato non vi è una precisa percezione di questa rimozione del suicidio dai media, e tantomeno dei sopravvissuti: “Mentre per gli aspiranti suicidi esistono delle strutture e dei numeri di telefono per la prevenzione, per i sopravvissuti non esiste niente, e non esiste nemmeno un protocollo scientifico per seguirli e aiutarli; questo non solo in Italia, ma nel mondo. Vuol dire che da nessuna parte ci si sta preoccupando di loro, perciò, quando ti succede una cosa del genere sei abbandonato a te stesso, ed è inspiegabile che la nostra società faccia una cosa del genere”.

Quando è successo a me nel 1998, internet era agli albori e non potevi andare a cercare assistenza o aiuto, – racconta l’ospite – per questo ho dovuto cercarlo fisicamente, chiedendo in giro e informandomi, ma non c’era comunque nessun tipo di assistenza. Oggi le cose un po’ sono cambiate, esistono delle iniziative, che sono però tutte a base volontaria; ci sono dei gruppi di aiuto per i parenti, associazioni che vanno a parlare nelle scuole, ma sono tutte fatte da sopravvissuti stessi: sono i genitori che vanno a parlare nelle scuole, vedovi o vedove, figli che sono rimasi orfani che organizzano un gruppo nella loro città e così via”.

Tuttavia B. Bianchi, sulla scia di questo ragionamento, pone rilevanza ad un altro aspetto: “Se da un lato è splendido pensare che queste persone partono dal loro dolore per aiutare gli altri, perché questa cosa non vada sprecata ma che acquisti un senso, dall’altro lato mi chiedo se sia davvero possibile che la nostra società debba delegare alle vittime di occuparsene, non è mostruoso che nessun altro se ne stia occupando? E per nostra società intendo il mondo, non solo l’Italia”.

Il romanzo come simbolo di tante altre storie

fonte: pagina Instagram di Matteo B. Bianchi

Continuando a parlare di narrativa, Matteo B. Bianchi confessa che il suo romanzo è pieno di citazioni, spiegando però che “questo è un ragionamento da scrittore: quando scrivi qualcosa di così personale, hai bisogno di trovare la chiave per raccontare la tua storia, e questo è necessario perché lo scrittore scrive un libro non perché abbia voglia di svelare il suo privato, ma perché vuole che sia una storia rappresentativa di molte altre. Proprio per questo motivo, – continua- nel libro ad un certo punto mi apro, vado ad incontrare altre persone, come medici e altri sopravvissuti, per dare la sensazione che la mia storia sia una delle tante”.

“In questo libro non ci sono descrizioni fisiche né geografiche, – spiega B. Bianchi – lui stesso viene citato con un’iniziale e basta, i nomi dei suoi famigliari sono tutti inventati, proprio perché ho cercato di renderlo più simbolo possibile. Raccontare quello che era necessario raccontare, ma preservare la parte personale il più possibile, un po’ per rispetto mio e nei suoi confronti, ma anche perché volevo che questa storia avesse un valore simbolico. Anche per questo motivo il libro è descritto con dei ‘flash’, perché ho deciso di illuminare alcune parti, per far creare il disegno di insieme allo stesso lettore”.

Lo scrittore racconta come questo romanzo sia stato una missione: “Quando incontravo altre persone per la stesura del libro molti mi dicevano: ‘Come sei coraggioso’, ma io non ho mai percepito la sensazione di coraggio, ma sempre una sensazione di necessità e di responsabilità, stavo facendo quella cosa perché andava fatta e non la stava facendo nessuno”.

Mai come in questo libro ho sentito una specie di scissione personale, tra un me stesso persona e un me stesso scrittore – racconta ancora – : come persona ho dovuto affrontare questa storia ventiquattro anni fa, ci ho impiegato del tempo per venirne fuori, ma come scrittore me la sono portata dentro, impiegandoci molto più tempo ad essere pronto ad ascoltarla. Come persona c’erano certe cose che avrei voluto proprio dimenticare e accantonare, come scrittore invece continuavo a dirmi ‘No, questa cosa non puoi dimenticartela’, perché sapevo che avrei dovuto scriverla; è una specie di strana dissociazione interna, con cui dovevo fare in conti”.

Inoltre, l’autore spiega come alla domanda se questo libro sia stato terapeutico o lo abbia aiutato a mettere un punto in questa storia, la risposta sia ‘assolutamente no’, perché “non mi ha cambiato in niente. La scrittura terapeutica fa bene a chi la scrive, è personale; invece, questo libro è proprio pensato per essere letto e per comunicare qualcosa ad altre persone, e perché non ho assolutamente bisogno di mettere un punto a questa storia, perché questa storia non avrà mai un punto”.

“Il motivo principale per cui ho scritto questo libro è perché la sensazione che prova il sopravvissuto è una sensazione quasi inspiegabile per gli altri, – racconta l’autore al pubblico – ti lascia con un bagaglio pesantissimo di domande non risposte, di ripensamenti, di sensi di colpa: arrivi a provare odio e rabbia per questa persona, e nello stesso momento provi un amore disperato perché non c’è più. Provi tutte contemporaneamente delle emozioni che sono incompatibili fra loro, e anche per questo quando gli altri provano ad aiutarti con consigli insensati, capisci che non hanno proprio idea di dove ti trovi in quel momento e di cosa stai provando”.

Matteo B. Bianchi conclude il suo intervento spiegando che per lui “la cosa più importane è che tantissime persone mi stanno scrivendo che per la prima volta hanno letto quello che hanno provato, e che loro non riuscivano nemmeno ad esprimere; il fatto di essere arrivato a queste persone per me è la cosa più importante che abbia mai fatto”.

di Beatrice Guaita

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