Il cohousing è la soluzione di cui non sapevamo di avere bisogno

Non solo madri single che si riuniscono in "mommunes": sono sempre più frequenti le soluzioni abitative comunitarie, non solo per avere un supporto logistico-economico, ma soprattutto emotivo

Fonte: Unsplash.com

Con il termine cohousing si intende un modello abitativo incentrato sulla condivisione di spazi e servizi all’interno di una collettività non costruita da legami di sangue, ma dalla necessità comune di assistersi e creare un legame. Questa necessità ha preso vita grazie alla nascita di Sættedammen. Questa è stata la prima comunità di cohousing al mondo, nata in Danimarca a trenta chilometri da Copenaghen negli anni sessanta dalla necessità di abbattere i costi e dal desiderio di aiuto reciproco. Questo tipo di struttura può essere composta da una sola abitazione o da più complessi comunicanti tra loro grazie a zone verdi o aree di aggregazione.

Nuovi modelli per nuove famiglie

Questo modello abitativo prende piede, per i grandi valori legati alla condivisione e ai legami sociali, anche negli Stati Uniti, dove gli architetti Kathryn McCamant e Charles Durrett (che studiavano comunità e modelli abitativi nel paese) coniarono il termine inglese. Anni dopo, sempre negli USA, questo modello vede nascere una nuova diramazione del suo significato e della sua realizzazione fisica grazie alle mommunes.

Con l’unione delle parole mom commune, si intendono comunità di donne divorziate, vedove o single con figli a carico che scelgono di vivere insieme per potersi garantire una migliore stabilità economica dividendo le spese e sostenendosi nei momenti di difficoltà (affrontare un divorzio, la ricerca di un lavoro o un sostegno emotivo).

Questo tipo di cohousing deve la sua divulgazione online al progetto nato dall’idea di Carmel Sullivan Boss, che nel 2002 crea la piattaforma CoAbode che permette a madri single di entrare in contatto nella ricerca di alloggi condivisi.

Il percorso di Sullivan Boss nasce inizialmente da una sua stessa necessità: cercare qualcuno disposto a condividere una abitazione con lei e i suoi bambini; quando ha iniziato la ricerca, però, ha capito che questa necessità era condivisa da tantissime altre donne nella sua stessa situazione. Da qui l’idea di Coabode, sito web dove serve registrarsi, inserire i propri dati personali e le principali necessità per cercare una futura coinquilina compatibile con le proprie necessità (possibilità di spesa, luogo dove vivere ecc…).

Ma questa nuova realtà, oltre ad aprire una riflessione sulle difficoltà per le donne di garantire una stabilità economica a loro stesse e ai minori a loro carico – riuscendo ad affrontare le spese che ovviamente gravano soprattutto per un genitore single – è anche un grande esempio di autodeterminazione nello scegliere in che ambiente far crescere i propri figli, non per forza in una chiave di lettura negativa o di rinuncia.

Sempre più donne (specie Oltreoceano) scelgono queste comuni per garantirsi uno spazio personale che da sole sarebbe più difficile da gestire, ma anche una realtà familiare dove i bambini vivono più a contatto gli uni con gli altri – evitando così i costi di una babysitter – potendo contare su donne che vivono nella loro stessa realtà e con le quali si crea un rapporto di comunità che non sostituisce la figura del genitore che in quel momento manca, ma rafforza le relazioni all’interno della casa. Quest’ultima non è più solo uno spazio che va condiviso per forza maggiore, ma diventa una scelta consapevole e una nuova visione di gruppo come grande famiglia.

Se ci si pensa, questo tipo di organizzazione tra donne è sempre esistita, sin dai tempi della guerra, quando gli uomini della famiglia erano lontani da casa: la collaborazione sia a livello lavorativo che di gestione dei figli ha probabilmente sempre fatto parte culturalmente della nostra società. 

Non solo madri e figli

Anche in Italia questo fenomeno si sta a mano a mano diffondendo soprattutto a causa delle spese sempre più elevate; la richiesta di questo tipo di servizio arriva, oltre da donne in difficoltà, anche da persone anziane che, vivendo da sole, scelgono questa soluzione abitativa per far fronte alla solitudine e avere una maggiore sicurezza tra le mura domestiche.  

Si chiamano Silver cohousing le soluzioni abitative specifiche per persone over 65 autosufficienti che fanno la scelta di non vivere soli. L’autonomia e la riservatezza di un proprio spazio è sempre presente, ma viene a crearsi una rete intorno a persone che spesso non hanno più un/a compagno/a di vita o hanno parenti troppo lontani da loro per sentirsi al sicuro. A Treviso, ISRAA (Istituto per Servizi di Ricovero e Assistenza agli Anziani) grazie a queste nuove realtà ha seguito, tramite un percorso di rigenerazione urbana, il recupero di un borgo realizzando appartamenti di varie grandezze in funzione della realtà del cohousing.

Il caso più recente che nel nostro paese ha messo in luce una visione ‘diversa’ di nucleo familiare è stato portato sotto i riflettori grazie a Michela Murgia. La scrittrice, dopo aver dichiarato di avere un tumore al quarto stadio nell’intervista al Corriere della Sera dove ha presentato anche il suo ultimo libro Tre ciotole, lo scorso 6 maggio ha parlato di questo periodo della sua vita come un periodo di scelte anche per chi rimarrà dopo di lei, ovvero la sua queer family, dove non è importante definire e incasellare un ruolo, ma amare, garantire affidabilità e stabilità al nucleo senza darsi nomi o compiti vincolanti.

Murgia ha acquistato una casa con dieci posti letto per la sua famiglia, a breve si sposerà e ha figli dell’anima. La grande forza della famiglia queer sta nell’amore, nella fiducia e nell’atto di scegliere. Questo non significa rinnegare le relazioni di sangue, ma tutelare e amare senza documenti o convenzioni che danno valore ai rapporti tra persone. Le responsabilità sono fluide, variabili e interscambiabili, così dichiara a una intervista per La Stampa al salone del libro di Torino.

Queste nuove realtà probabilmente con il tempo si dimostreranno una grande soluzione per chi ha più bisogno di vedersi garantita una stabilità emotiva, o una preoccupazione economica in meno per tanti giovani precari o anziani che, nel nostro paese, rappresentano una maggioranza non trascurabile.

di Nicole Bonori

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