Steven Bradbury, campione per caso

Compirà 50 anni a ottobre uno dei più grandi underdog delle Olimpiadi. Nel 2002 conquistò un inaspettato successo di short track (e la Gialappa’s Band)

Salt Lake city, 2002, Olimpiadi invernali, finale dei 1000 metri individuali di short track. L’australiano Steven Bradbury ancora deve capire come sia arrivato fin lì. Goffo e lento, ha ben poche carte dalla sua e ancora meno pretese: deve, infatti, vedersela con atleti più giovani, blasonati e performanti di lui, che da subito lo staccano di vari metri. Tutto sembra finito per il nativo di Camden, ma la troppa ambizione degli avversari, la foga intrinseca della disciplina e una valanga di fortuna finiscono per aprire letteralmente un corridoio all’atleta australiano, che si ritrova davanti all’appuntamento con la storia senza averci nemmeno sperato.

Precedenti travagliati

Steven Bradbury nasce a Camden (Australia) nel 1973. Gli inizi nel mondo dello short track professionistico sono dei migliori, in particolare nella staffetta. In questa specialità ai campionati mondiali colleziona tutti i metalli del medagliere: un oro nel 1991, un bronzo nel 1993 e l’argento nel 1994. Nello stesso anno arriva anche il successo olimpico con il bronzo ai Giochi invernali di Lillehammer.

Poi, proprio un titolo di caratura mondiale che lo aveva portato a toccare il cielo con un dito, per poco non lo trascina all’inferno: nella coppa del Mondo del 1994 a Mòntreal, durante una prova dei 1500 metri individuali, un rovinoso scontro contro i pattini del pilota canadese Frederick Blackburn gli fa perdere 4 litri di sangue. Scampato per poco alla morte, dopo 111 punti di sutura Bradbury deve affrontare un calvario di 18 mesi di riabilitazione che minano sensibilmente il suo talento.

In primo piano, Bradbury nella batteria dei 1000 metri individuali a Salt Lake City, Fonte: pagina Facebook Fraser Coast Young Professionals

La prova sono i successivi Giochi Invernali del 1998 a Nagano: fanalino di coda nella finale B della staffetta, subito fuori nelle batterie dei 500 e 1000 metri individuali dove viene coinvolto in una serie di scontri con gli atleti rivali e non va oltre il terzo posto. Nel 2000, in allenamento, un‘altra beffa: si frattura il collo e passa sei settimane con il collare ortopedico.

Salt Lake City 2002: la svolta

L’atleta che aveva conquistato il titolo mondiale a 21 anni sembra solo un lontano ricordo. C’è tempo per un ultimo tentativo di gloria ai Giochi di Salt Lake City del 2002. Dopo una ragguardevole vittoria in batteria nei 1000 metri individuali, Bradbury si presenta ai quarti con la consapevolezza di non avere nulla da perdere: nel quintetto, tra gli altri, c’è Apolo Anton Ohno, statunitense vent’enne di buonissime speranze che diventerà un grandissimo della disciplina, e Marc Gagnon, canadese esperto e campione mondiale in carica. La gara non riserva sorprese e segue i pronostici: arrivano primi loro due, Bradbury è terzo e quindi eliminato. Fino alla decisione del giudice: Gagnon, arrivato secondo, viene squalificato per avere ostruito il giapponese Nakamura durante la gara. Ecco allora un inaspettato pass per le semifinali per l’australiano.

Apolo Anton Ohno, Fonte: pagina Facebook Us Speedskating

Con l’alzarsi del livello buttarsi nella mischia cercando di tenere il comando potrebbe rivelarsi pura utopia ed energie sprecate per uno come Bradbury, tra gli atleti più anziani della competizione. È arrivato allora il momento di pensare come tale: la strategia dev’essere quella di stare dietro sfruttando la scia (sebbene per sfruttarla si debba comunque assolvere l’arduo compito di non farsi seminare dagli altri) e una caratteristica di questo sport che si impara ad apprezzare con l’esperienza: la facilità di caduta. Pazienza e speranza, dunque, il binomio su cui punta l’australiano. Che viene premiato.

L’avversario sulla carta più ostico, il sudcoreano campione olimpico in carica Kim Dong- sung, perde l’equilibrio per un contatto all’ultima curva e va fuori dai giochi; poi il giapponese Satoru Terao scivola e trascina con sé Mathieu Turcotte, maturo canadese classe 1977 a caccia della prima gioia olimpica individuale in carriera. Bradbury, per goffaggine o strategia, arriva da molto dietro, evita la bagarre e raggiunge il secondo posto servito su un piatto d’argento.

Fonte: profilo Facebook di Alessio Lupo Pasqua

Si arriva quindi al gran finale: Bradbury deve ampiamente baciarsi i gomiti, è già il primo australiano di sempre ad arrivare in una finale olimpica di short track. Arrivare a medaglia suona a dir poco ostico. Anche perché gli avversari sono sempre dello stesso tipo, vincenti, pimpanti e destinati a vincere: Ohno, Turcotte, ma soprattutto il cinese Li Jiajung, che arriverà a 14 titoli mondiali, e il sudcoreano Viktor An, che diverrà il più decorato di sempre con 8 medaglie olimpiche. Si può provare la strategia adottata in semifinale.

Bradbury viene subito lasciato indietro dai 4, che si danno battaglia per tutta la gara. Ohno infila maliziosamente all’interno i due litiganti An e Li, ma il sudcoreano non molla e rimane alle calcagna del cinese e tenta con esuberanza di sfondare. Turcotte è il quarto vagone del mini-trenino. Bradbury è un rimorchio lasciato per strada. La gara prosegue con Li che aggressivamente cerca di prendere il comando, ma rimane dietro Ohno. Bradbury ha vari metri a separarlo dagli avversari.

Poi, poco prima del rettilineo finale, succede l’incredibile. La foga e la velocità, binomio croce e delizia della disciplina, generano  il parapiglia: all’ultima curva Li inciampa in un contatto con Ohno e finisce contro il bordo della pista. Nel cadere il cinese urta con la mano sinistra il pattino destro di Ann, che si sbilancia e va a sua volta a tranciare (figuratamente) Ohno, provocando la caduta di entrambi. Turcotte, appena dietro, non è a distanza sufficiente per evitare il tamponamento nel tamponamento e caracolla a sua volta. Dal caos emerge Steven Bradbury. Cinematografico, ma inutile il tentativo veemente di Ohno, che da terra tenta in scivolata di tagliare il traguardo, ma riesce solo nel secondo posto. Il primo è tutto, sorprendentemente, dell’australiano, che trova il ruolo di protagonista in una gara condotta da comparsa.

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Bradbury taglia il traguardo davanti ad Ohno e Turcotte, Fonte: Pagina Facebook di Steven Bradbury

È tutto incredibile, ma regolare: qualche secondo di brividi per il verdetto dei giudici, che validano il risultato e portano Bradbury nell’olimpo della storia australiana con il primo Oro invernale di sempre per un atleta proveniente dall’ex colonia inglese. Una storia di foga, fortuna, redenzione, ma anche goffaggine, che non sfugge alla Gialappa’s Band che tramuterà Bradbury in un meme immortale, con quel commento esilarante che ha fatto conoscere l’atleta australiano agli appassionati di sport e non nella rubrica Mai dire Olimpiadi. L’underdog per eccellenza, The last man Standing, dirà in un’intervista al Daily Telegraph: “Non ho vinto la medaglia d’oro per quel minuto e mezzo di gara, ma per i dodici anni di carriera che mi hanno portato fino a quel minuto e mezzo”. Come annunciato prima delle competizioni, Bradbury si ritira dal mondo dello short track.

Bradbury post Bradbury

L’eco di quell’impresa impronosticabile permea, oltre che il già citato mondo della televisione italiana, anche l’ambito linguistico: nello slang inglese in Australia, l’espressione “doing a Bradbury” viene usata per indicare un successo clamoroso e difficilmente pronosticabile. Sempre rimanendo sulla lingua inglese, l’appellativo Last Man Standing (l’ultimo a rimanere in piedi) è troppo accattivante per non essere sfruttato: questo, infatti, il nome della sua autobiografia curata da Gary Smart, uscita nel 2005, e di una sua produzione di birra indipendente .

La popolarità di Bradbury lo porta a vivere una vera e propria seconda vita mediatica, con il ruolo di commentatore ai mondiali del 2003 e alle Olimpiadi del 2022 per la Tv australiana e una partecipazione a “ballando con le stelle”. Bradbury gareggerà anche in gare automobilistiche di Formula Vee, e sarà speaker di discorsi motivazionali.

Bradbury con i cofondatori della “Last Man Standing Brewing”, Damian e Stephen Prosser, Fonte: profilo Facebook di Darren Oakey

La cronaca recente ha ravvivato il suo alone di “eroe per caso”, con il salvataggio di 4 ragazze in balia delle onde nel Queensland. Il 13 ottobre spegnerà 50 candeline e ricorderà quanto tempo sia passato, tra tutte le altre cose, da quella incredibile impresa che lo consegnò alla storia. Un‘impresa raccontata in lungo in largo e spesso con quella retorica tanto legittima quanto trita e ritrita dell’uomo che aveva un conto in sospeso con la sfortuna o del goffo underdog che ha ribaltato ogni pronostico.

Ecco allora una lettura alternativa: la storia di Bradbury a Salt Lake City è un po’ come un esame di ammissione all’università. Ciò che conta non è tanto fare bene in assoluto, quanto semplicemente fare meglio (o meno peggio) degli altri per arrivare in posizione utile in graduatoria. E allora si può dire che in quel 16 febbraio del 2002, Bradbury abbia incontrato studenti ben più preparati di lui, che con grande convinzione hanno consegnato il foglio con un esame quasi perfetto…dimenticandosi degli esercizi sul retro.

di Michele Bonucchi

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