I love shopping, ma forse dovrei amarlo meno

Spesso non siamo consci dell'impatto che il nostro modo di acquistare sta avendo sull'ambiente, ma essere più sostenibile è sempre più semplice

“Andiamo a fare shopping?” è ormai una domanda di routine quando si propone qualcosa da fare con amici, parenti o si cerca semplicemente una scusa per uscire di casa. Lo shopping è diventato compulsivo, terapeutico e viene forse visto come strumento di auto affermazione – come se avere il capo dell’ultima collezione di Zara potesse in qualche modo aiutare ad essere accettati in una determinata cerchia sociale. 

The Guardian riporta che l’acquirente inglese medio compra 28 pezzi di abbigliamento all’anno: visto il numero elevato viene spontaneo chiedersi se siano tutti effettivamente necessari. La risposta è probabilmente negativa. 

Andare per negozi, in una società capitalistica e consumistica come la nostra, è di certo vista come una proposta innocente. Tuttavia negli ultimi anni fare shopping è passato dall’essere un’attività da tempo libero all’essere un moto irrefrenabile che, come dimostra il report annuale di Wrap sull’industria tessile, ha portato a ripercussioni piuttosto pesanti sull’inquinamento globale.

Guardando i dati riportati, si può notare come il settore tessile sia molto più inquinante di quanto l’acquirente medio possa immaginare. Si stima che l’industria della moda sia causa del 10% delle emissioni mondiali di gas serra e del consumo di 93 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno.

Per tentare di far fronte a questi numeri, nell’aprile 2021 Wrap ha lanciato un patto ambientale a partecipazione volontaria su territorio britannico – chiamato Textiles 2030 – con l’obiettivo di creare, entro l’agosto 2030, un’industria tessile più sostenibile e circolare rispetto a quella attuale. 

Il riepilogo del triennio 2019-2022 mostra come le emissioni globali di carbonio e l’utilizzo di acqua fossero in effetti state ridotte rispettivamente del 12% e 4%. Questi risultati sono però stati quasi completamente annientati dalla quantità di indumenti prodotti che, nello stesso periodo di tempo, è aumentata del 13%, portando così ad un incremento dell’utilizzo di acqua pari all’8% e a ridurre le emissioni di carbonio solamente del 2%. Di fatto, quindi, i progressi che si era stati capaci di realizzare sono stati cancellati dalle nostre abitudini di acquisto per niente sostenibili.

L’insostenibilità dell’industria tessile, ad oggi, è rappresentata non solo dai dati appena citati, ma anche dallo sfruttamento estremo di operai e operaie impiegati in esso. Proprio in questi giorni, in Bangladesh, è in corso una protesta che mira ad un miglioramento delle loro condizioni lavorative.

Esiste una soluzione?

La domanda da farsi, a questo punto, come consumatori è: cosa possiamo fare per contribuire alla creazione di un’industria più green? 

La risposta più intuitiva e forse banale è semplicemente smettere di acquistare quando non abbiamo bisogno di nuovi capi nel nostro armadio. Sarebbe di certo la via più breve per combattere gli sprechi, ma nel concreto non è pensabile portare il numero di acquisti fatti in un anno da 28 – come suggeriva il The Guardian – a 0. 

E quindi, cos’altro fare? Un’altra opzione valida è sicuramente quella del riciclo o, per meglio dire, dello shopping di seconda mano

Negli ultimi anni con l’avvento di Vinted (applicazione che permette la compravendita di abiti, scarpe, accessori e anche libri con un click) e la popolarità che i mercati dell’usato stanno raggiungendo grazie a social media come Tik Tok e Instagram, il thrifting (ndr. shopping dell’usato) è diventato quasi una moda, tanto che quando si cercano attività da fare nelle grandi città, la visita ai mercati è inserita tra di esse. In generale, comunque, negli ultimi anni il mercato del pre-loved (ndr. precedentemente amato/di seconda mano) sta crescendo a vista d’occhio e si stima che possa raggiungere una crescita del 217% entro il 2026, come riporta il LifeGate Daily.

Il second hand, insomma, è un’opzione sostenibile al 100% poiché non si utilizzano altri gas o materiali di qualsiasi tipo per la produzioni di tali indumenti, già esistenti nel nostro ecosistema. Inoltre – e questo è un aspetto che come consumatore non va perso di vista – è un modo di fare acquisti molto più sostenibile anche per il portafogli! I prezzi dei mercatini tendono infatti ad essere molto più bassi di quelli delle grandi catene, offrendo tra l’altro indumenti che spesso sono di qualità molto più elevata. 

di Anastasia Agostini

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