Possiamo parlare ancora di razze umane?

Per secoli si è parlato di teorie razziali, ma cosa dice la genetica? Dai primi studi dell'Ottocento ad oggi

@Humanae – Angélica Dass

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” Questo è il comma 1, articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana, attorno al quale, da anni, si sviluppa un sano e democratico dibattito sull’opportunità di eliminare, o sostituire, il termine razza.

La principale tesi a sostegno di questa riforma si basa su un’evidenza scientifica: le razze umane non esistono. Continuare ad utilizzare questo termine, anche nel documento più importante dello Stato, per molti, contribuirebbe ad alimentare equivoci e fraintendimenti sulla possibilità di distinguere persone in base ad una classificazione raziale, che il mondo accademico ha definitivamente cassato. D’altro canto però, quel termine fu posto dai Padri e le Madri Costituenti con l’intenzione di prendere le distanze dalle derive persecutorie in cui lo Stato era caduto con le leggi raziali del 1939.

Il falso mito della razza superiore

Le tesi razziali del XIX e XX secolo si basavano sull’idea della superiorità della “razza” bianca europea su tutte le altre (semitica inclusa) e veniva spesso utilizzata come giustificazione allo spregiudicato colonialismo, all’arrgoganza verso gli altri popoli e alla loro discriminazione.

Queste pratiche continuarono anche oltre la decolonizzazione del secondo dopoguerra: la condizione degli aborigeni australiani e il regime di apartheid sudafricano (abolito nel 1991) ne sono un esempio. Questa gerarchizzazione razziale è il vertice di un concetto errato chiamato scala naturae, secondo il quale alcune forme di vita sono biologicamente ed evolutivamente superiori ad altre.

Ogni forma vivente deriva da un unico antenato comune, da esso linee diverse si sono differenziate adottando soluzioni differenti agli stimoli ambientali. Le linee da cui altre si sono separate, non sono rimaste immote, ma a loro volta con il tempo si sono modificate, si sono adattate a nuovi stimoli. Pertanto non ci sono forme inferiori o superiori, ci sono solo forme diverse.

Lo studio delle razze

Tra Ottoceto e Novecento molti medici, psichiatri, biologi, zoologi e antropologi cercarono di compredere la dievrsità umana cercando di categorizzarla in razze. Questi studi si basavano su ciò che si poteva vedere, ovvero le caratteristiche morfologiche come ad esempio forma e dimensione del cranio, o il colore della pelle. Esempi evidenti di diversità, ma non appropriati, poichè variano Questi caratteri per imbrigliare la diversità sono inconsistenti dal momento che varian in modo non concorde tra individui, cioè nessun individuo possiede tutti e soli quei caratteri fisici associati allo stereotipo di una particolare razza. Così in alcuni sistemi razziali, membri della stessa famiglia potevano essere considerati appartenenti a razze distinte.

Ogni studio si basava su numero e combinazione diverso di caratteri e il risultato fu che spesso si ottenevano numeri diversi di razze umane: alcuni ne indicavano tre (europea, africana, asiatica), altri cinque (europea, africana, asiatica, americana e australiana) fino ad alcune centinaia. Nessuno fu dunque in grado di descrivere la variabilità umana attraverso un sistema supportato di razze.

Solo verso la fine del Novecento, questi studi hanno subito una svolta significativa grazie all’utilizzo di nuove tecnologie e la sempre migliore conoscenza del DNA, carattere conentente miliardi di informazioni che descrivono per intero l’individuo (Barbujani 2018).

Cinque razze umane, illustrazione del 1911.

Ma cosa si intende per razza?

Il termine “razza”, in realtà, viene utilizzato principalmente in ambito zootecnico, per definire gruppi di animali della stesa specie selezionati da noi umani per determinate esigenze. Quindi decidendo noi chi si deve accoppiare e con chi, per sviluppare e mantenere determinate caratteristiche fisiche. In natura, gli individui di popolazioni diverse di una stessa specie si accoppiano se riescono ad incontrarsi, quindi se non incontrano barriere geografiche o riproduttive.

Dunque, in natura il concetto di razza non è appropriato, ma è preferibile utilizzare il concetto di sottospecie. Perchè si formino delle sottospecie, è necesassario che gruppi di individui, rimangano isolati per lungo tempo (molte migliaia di generazioni), senza mai incontrarsi, seguendo un percorso evolutivo parallelo in aree geografiche distinte. Le sottospecie, sono quindi delle specie incipienti che non hanno ancora completato il loro percorso di divisione definitivo. In sottospecie diverse compaiono quindi delle varianti innovative di geni, che nelle altre sottospecie non sono presenti. Esse sono pertanto caratterizzate da sostanziali differenze genetiche: analizzando il DNA di un individuo a caso, è possibile inferire la sua origine geografica.

In natura le sottospecie sono abbastanza frequenti nelle specie che non hanno un alta motilità. Un bell’esempio proviene dalla specie a noi più prossima: lo scimpanzè (Pan troglodytes). Gli scimpanzè vivono nella foresta equatoriale dell’Africa centro-occidentale. Sono molto territoriali, dunque tendono a muoversi poco al di fuori del loro territorio. Sono state identificate quattro sottospecie, distinguibili in modo chiaro sia morfologicamente, ma soprattutto geneticamente (Gonder et al 2011). Tre di queste sottospecie vivono in aree molto prossime, ma separate da barriere geografiche come i grandi fiumi che sfociano nel golfo di Guinea.

Distribuzione del genere Pan e delle sottospecie di scimpanzè comune. Da Gonder et al 2011

Tutta colpa delle migrazioni

Dal momento che nessuno ha guidato gli accoppiamenti al fine di sviluppare l’aspetto fisico che abbiamo, nel nostro caso sarebbe preferibile parlare di sottospecie e non di razze, qualora esistessero. I nostri tratti sono infatti il risultato di un processo evolutivo naturale guidato da stimoli ambientali e/o culturali. Ed è proprio la nostra storia evolutiva che ha impedito la formazione di sottospecie.

La nostra specie è comparsa in Africa circa 300 mila anni fa, e lì vi è rimasta per lungo tempo. Solo da 70 mila anni fa si è espansa in Eurasia e da lì verso le isole del’Oceano Pacifico australe e le Americhe. Dunque la nostra storia condivisa africana è molto più lunga di quella che cia ha visti divisi nei cinque continenti. In realtà anche questa storia non è poi così lunga, infatti una volta usciti dall’Africa, le popolazioni hanno continuato a spostarsi, a migrare e a rimescolarsi con le altre popolazioni con cui venivano in contatto (Reich 2019). Perciò nesuna popolazione oggi può definirsi “pura”, ciascuna è il risultato del rimescolamento di altre popolazioni, e queste lo furono a loro volta.

La conseguenza di questo continuo scambio è che la maggior parte delle varianti (alleli) dei geni che ognuno di noi possiede, è presente in tutte le popolazioni, ma in frequenze variabili. Cioè un allele può avere un alta frequenza in una popolazione e bassa in un altra, ma molto raramente è unico e caratteristico di una sola popolazione.

Pertanto è molto difficile distinguere geneticamente dove inizia, per esempio, la variabilità europea e dove quella africana. Se prendessimo due individui provenienti da aree molto lontane geograficamente, per esempio Africa Centrale e Scandinavia, vedremmo delle differenze, ma se poi prendessimo in considerazione individui che provengono da aree intermedie, diventerebbe sempre più complesso definire chi è africano e chi europeo. Ci sono dunque delle estremità ben distinguibili, ma tra esse si interpongono le centinaia di sfumature, un gradiente di variabilità, che rendono impossibile definire con chiarezza dove inizi e dove finisca qualcosa.

Espansione umana @National Geographic

Il bianco, il nero e la gradazione di colori

Questo è chiaro ai genetisti, ma può essere compreso facilmente anche considerando quei singoli caratteri morfologici che molto spesso vengono utilizzati, a torto, come criterio per classificare gli individui, primo fra tutti il colore della pelle. Considerando ancora lo scandinavo e il centro africano, noteremmo con sicurezza la marcata differenza di pigmentazione della cute. Ma cosa succederebbe se dalla Scandinavia ci dirigessimo verso l’area mediterranea europea, poi a est attraversando il Medioriente, e da qui attraversassimo il Nord Africa per poi dirigerci verso l’Equatore? Osserveremmo un graduale cambiamento nel colore della pelle delle persone che incontreremmo nel nostro cammino, senza mai accorgerci veramente dove la pelle da bianca è diventata nera. Lo stesso esperimento mentale lo potremmo compiere per tutti gli altri caratteri che vengono considerarti tipici delle “razze” umane, ma il risultato sarebbe sempre il medesimo.

Distribuzione della pigmentazione della cute. (Ann Gibbons, Shedding light on skin color.Science346,934-936(2014))

Tre scienziati, nessuna razza

Se realmente la nostra specie fosse classificabile in sottospecie, analizzando il DNA di individui provenienti da aree diverse del mondo, ci si dovrebbe attendere una elevata diversità tra individui appartenenti a gruppi diversi. Un esperimento del 2009 (Ahn et al 2009) ha comparato il DNA di tre noti scienziati, due statunitensi di origini europee (James Watson e Craig Venter) e uno coreano (Seong-Jin Kim). È stato osservato che ciascuno dei due statunitensi condivideva più alleli con il coreano che non Watson e Venter tra loro. Ciò ha dimostrato che nonostante individui appartenenti alla stessa popolazione o a popolazioni geograficamente vicine tendano ad essere mediamente più simili rispetto a popolazioni dislocate in aree più lontane, le differenze tra individui appartenenti alla stessa popolazione possono essere elevate a causa del rimescolamento delle popolazioni: l’opposto di quanto ci si dovrebbe attendere in presenza di sottospecie.

Schematizzazione della variazione genetica tra i Dott. James Watson, Craig Venter e Kim Seong-jin. Le barre colorate rappresentano i geni; colori diversi rappresentano diversi alleli, cioè versioni dei geni. A destra: diagramma della somiglianza tra Kim, Watson e Venter. @Daniel Utter

In conclusione, abbiamo visto come, non solo le razze umane non possono esistere da un punto di vista semantico, ma non lo sono nememno da un punto di vista biologico ed evolutivo. E il motivo per cui non esistono, dunque, non centra nulla con il presunto buonismo di cui viene marchiata la società Occidentale contemporanea dalle frange più conservatrici, quelle del “non si può più dire niente!“. Infatti è fondamentale distinguere razze e razzismo.

Se le evidenze scientifiche avessero supportato l’esistenza delle razze, o meglio, delle sottospecie umane, non saremmo certo diventati tutti razzisti. Ciò che rende razzisti, non è affermare l’esistenza di razze (sarebbe un dato oggettivo), ma il voler definire delle gerarchie tra le stesse, considerando alcune (quella europea) migliori di altre da un punto di vista biologico ed evolutivo, ma anche culturale e sociale. Dunque è bene ricordare che siamo tutti diversi, ma allo stesso tempo incredibilmente simili, figli dello stesso piccolo gruppo che lasciò l’Africa alla volta del mondo.

di Matteo Caldon

Bibliografia

Ahn et al 2009. The first Korean genome sequence and analysis: full genome sequencing for socio-ethnic group. Genome Res

Barbujani 2018. L’invenzione delle razze. Bompiani

Gonder et al 2011. Evidence from Cameroon reveals differences in the genetic structure and histories of chimpanzee populations. PNAS

Reich 2019. Chi siamo e come siamo arrivati fin qui. Raffaello Cortina Editore

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