Viviamo veramente in un paese in cui ci è permesso dire tutto?

I recenti scontri tra la polizia e i manifestanti davanti la sede RAI di Napoli, in seguito agli appelli pro-Palestina a Sanremo, hanno dato il via ad una riflessione collettiva sul diritto alla libera espressione in Italia

Per la prima volta da quel fatidico 7 ottobre, in Italia è stata stravolta la narrazione dominante sul conflitto che da mesi va avanti sul suolo della Palestina. Ed è successo proprio sul palco dell’ultima edizione del festival di Sanremo. Durante la finale, il rapper e produttore Dargen D’amico si è espresso a favore della pace e del cessate al fuoco, mentre Ghali ha esplicitamente fatto riferimento al genocidio che lo Stato di Israele sta perpetrando ai danni del popolo palestinese. Il caos mediatico che ne è seguito, non ha fatto altro che dimostrare con forza il potere pubblico della parola di chi, conscio della propria visibilità, decide di schierarsi.

Non è stato solo l’annuncio, ma anche la canzone di Ghali, politicamente impegnata e intrisa di riferimenti all’invasione di Israele – per tracciare un confine con linee immaginarie bombardate un ospedale, per un pezzo di terra o per un pezzo di pane. Non c’è mai pace – ad avere risvolti positivi sull’opinione pubblica. Una svolta si è avuta, ad esempio, da parte del Pd di Elly Schlein, che ha deciso finalmente di impegnarsi a chiedere alla Camera un immediato cessate il fuoco a Gaza. Diverse, invece, le posizioni dell’ambasciatore israeliano in Italia Alon Bar, che ha definito “vergognoso” usare Sanremo per diffondere odio, appoggiato dai vertici RAI e dal senatore di FI Maurizio Gasparri.

A lasciare perplesso il pubblico italiano è stata la scenetta andata in onda a Domenica In. Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta” legge, parola per parola da un comunicato stampa una Mara Venier genuinamente scocciata dalla situazione in cui i due artisti l’avrebbero cacciata; continua poi girando il dito nella piaga: “Sono le parole che ovviamente condividiamo tutti, del nostro Amministratore delegato Roberto Sergio”.

Alla RAI non basta questa presa di posizione un po’ forzata e arrogante (che condividiamo tutti? a giudicare dalla reazione del web, non sembrerebbe), perché subito dopo si preoccupa di rendere inaccessibile il replay dell’intervento di Ghali sulla piattaforma RaiPlay. Per fortuna l’artista stesso posta, sia sulle storie che sul suo profilo, il video integrale con l’emoticon delle dita incrociate. Come per dire, ecco qua, ci avete provato a togliermi il diritto di dire la mia, ma io lo metto qui, pace. E allora via alle manganellate.

Nei giorni successivi alla fine del festival, diverse proteste sono state organizzate sotto le varie sedi della RAI a Roma, Napoli, Torino e Milano. Tutte con il semplice intento di manifestare il proprio dissenso rispetto al comunicato stampa letto a Domenica In. Ma quando una settantina di persone si sono presentate martedì scorso sotto la sede RAI a Napoli, ad aspettarli hanno trovato una schiera di poliziotti con caschi e manganelli, neanche fosse un raduno di nostalgici di un certo regime autoritario (spoiler, non c’era neanche l’ombra di una divisa ad Acca Larentia). Così i manifestanti sono stati travolti dalla ferocia, possiamo dire, inappropriata, della polizia che ha ferito 5 persone, mentre le persone affacciate dal palazzo della sede RAI ridevano divertite, secondo quanto racconta sulla sua pagina Instagram l’autrice e attivista Flavia Carlini, lì presente.  

Sembra che le parole dei due artisti abbiano minacciato di spezzare quel filo sottile che da ottobre continuano a tessere media e governo, ambiguamente coalizzati nella narrazione unilaterale di ciò che sta avvenendo in Palestina. Ci tengono costantemente informati sulle barbarie di Hamas, sugli ostaggi israeliani e non si stancano mai della risposta pre-confezionata ad ogni diverso punto di vista: “Eh ma il 7 ottobre?” omettendo di fatto tutto quello che sta avvenendo dall’altro lato della famosa linea immaginaria.

Questa narrazione ha trovato un terreno molto fertile nell’ampia comunità di personaggi che in Italia potrebbero avere una certa risonanza mediatica. L’astensione pericolosa di celebrità, artisti, politici, influencer e figure di rilievo che hanno scelto di percorrere la strada di un silenzio complice, pericoloso e cautelativo, nasconde forse una certa accondiscendenza al potere e a tutto ciò che viene deciso da altri. È proprio il tipo di atteggiamento che permette di starsene in disparte a guardare ed uscire illesi dai mutamenti della storia. Ma a che prezzo?

Negli ultimi anni, sembra che la libertà di espressione sia passata dall’essere un diritto della collettività ad un privilegio di pochi appartenenti ad una ristretta cerchia. E questa cerchia include solo chi cammina parallelamente alla linea governativa. Sembra, a tratti, che l’obiettivo del governo sia quello di condizionare la libertà d’informazione e minare al pluralismo informativo che rende l’Italia un paese libero e democratico. Dal processo contro il giornalista Roberto Saviano, accusato di diffamazione, al raid dei carabinieri nella redazione del Domani per sequestrare un articolo, fino all’attacco diretto di Giorgia Meloni al quotidiano la Repubblica, accusato di “fare la guerra al governo per fare l’interesse dell’editore”.

Anche le statistiche parlano chiaro e delineano un panorama informativo (televisivo) completamente sbilanciato a favore del governo Meloni, con il doppio del tempo concesso alla presidente rispetto all’ex premier Draghi nei telegiornali e nei talk show. Per non dimenticare la cacciata di Fazio, la cancellazione delle puntate di Insider di Saviano e quella cara sistematica eliminazione del punto di vista dell’opposizione.  

La ciliegina sulla torta la mette, guarda caso, la Lega, presentando al Senato una proposta di legge che pretende di criminalizzare qualunque critica contro Israele. La prossima, forse, prevedrà il confino politico per i dissidenti.

di Sara Collovà

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