Supplici di Euripide al Teatro Due di Parma

La storia del dolore di sette donne che chiedono la restituzione dei corpi dei propri figli caduti rimane una tragedia senza tempo.

A seguito di una duplice vittoria del Premio ANCT 2022 per la miglior regia e il Premio Hystrio Twister 2023, è tornato al Teatro Due per tre sere di fila (dall’1 al 3 marzo) Le Supplici di Euripide, un dramma greco indimenticabile diretto dalla meravigliosa regia di Serena Sinigaglia e interpretato magnificamente da sette donne: Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna,Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan, Virginia Zini, Debora Zuin.

Un dramma antico di duemila anni senza tempo

Grecia, V secolo a. C. 

Sette donne cappeggiate da Adrasto (il re di Argo) giungono nei pressi dell’altare di Demetra a Eleusi per chiedere aiuto agli Ateniesi. Queste sette madri supplicano che vengano restituiti loro i cadaveri dei figli caduti dinnanzi le porte di Tebe, ma, nonostante la loro richiesta legittima, il nuovo re di Tebe, Creonte, ha decretato che quei cadaveri nemici non debbano tornare nelle loro case. Per questo motivo, infatti, le donne chiedono aiuto ad Atene e, in particolare a Teseo, re della città, nonché mitico eroe protetto della dea Atena. Nonostante l’iniziale titubanza nell’aiutare le donne, l’eroe scenderà in campo per riportare a casa quei cadaveri, in uno scontro senza precedenti contro la città di Tebe. 

Una volta ottenuta la vittoria (a caro prezzo e con ulteriori spargimenti di sangue), vengono celebrati i funerali dei caduti e Adrasto prende la parola, per l’elogio funebre in ricordo dei morti. Durante i funerali, tuttavia, al dolore si aggiunge altro dolore: Evadne, moglie di Capaneo, si getta sul rogo per condividere con l’amato la morte. 

Per ultima, a chiudere il cerchio della tragedia, arriva Atena ex machina che fa giurare a Teseo e Adrasto un patto di amicizia profonda tra le due rispettive città.

crediti: Serena Serrani

Tragedia delle tragedie del mondo e dell’uomo

Siamo in Grecia, almeno, nella tragedia portata sul palcoscenico. Ma il testo è davvero solo riferibile a una storia del V secolo avanti Cristo? 

La bellezza del mito classico risiede proprio nell’essere senza tempo, o forse è meglio dire che risiede nel suo essere sempre in linea con il tempo in cui si trova a vivere. Succede così anche con questo testo di Euripide, vecchio di duemila anni che, ancora al giorno d’oggi, ha da dire la sua in relazione alla guerra e alla politica.

Quella presentata è una tragedia nella tragedia: alla storia delle donne supplici, si unisce, infatti, la dolorosa storia di un ulteriore massacro in nome della vendetta della caduta di altre vite; è giusto uccidere perché ci sono state delle morti? 

La storia si muove in un’atmosfera trasudante dolore e tormento in cui le tenebre fanno da padrone e in cui si muovono poche luci che, nella maggior parte dei casi, sono mosse dalle stesse attrici. Sono luci che interrogano i personaggi, e che, con un occhio di bue li schiacciano ancora una volta nel dolore delle loro scelte.

Al centro della scena campeggia un altare, un richiamo alla scenografia classica del teatro greco investito non solo di un ruolo pubblico di riunione cittadina, ma anche un momento di catarsi collettiva. Una scelta registica molto potente e in perfetta linea con il senso ultimo di questo dramma greco: alla fine anche lo spettatore moderno, osservando questa tragedia insieme al resto del pubblico, vive un momento catartico e, forse, anche di riflessione sulla stupidità umana e l’inutilità dei conflitti. 

L’altare, nel corso della pièce, muta la propria forma, rimanendo sempre uguale a sé: diviene pulpito, ritorna ara, diviene terrazzo, poi punto d’appoggio … è sia l’alfa che l’omega, dove tutto ha inizio, il luogo in cui le donne arrivano per chiedere aiuto a Teseo e il punto di conclusione con l’arrivo di Atena che sancisce l’alleanza tra Argo e Atene. Intorno a esso si muovono le sette attrici, le sette donne che non solo interpretano le supplici ma, a turno, interpretano anche quelle figure maschili che gravitano intorno a loro: Teseo, Adrasto, l’araldo di Tebe, il padre di Evadne e ancora il messaggero di Teseo. Ancora una volta un richiamo all’impostazione greca e al ruolo degli attori che dovevano, nel corso della pièce, interpretare più di un ruolo. La scelta di mantenere un cast tutto al femminile rende la storia ancora più profonda, una riflessione non solo sulla storia raccontata in sé, ma anche del ruolo delle donne all’interno della tragedia che, nonostante ne rappresentino il fulcro e ne siano le protagoniste, rimangono sullo sfondo, ombre nere che si muovono come spettri per chiedere, supplicando, la restituzione dei cadaveri dei propri figli. 

crediti: Serena Serrani

Sette anime schiacciate, accartocciate dal dolore della perdita e che si ripiegano, una volta tornate nel ruolo di donna, sotto il peso della sofferenza. Un dolore che diventa vivido, pesante, ancora più opprimente dalla scenografia e dai costumi neri ricoperti di terra: quella terra sulle vesti è il simbolo del lutto, non solo in relazione alla penitenza delle madri, ma quasi un simbolo, un richiamo a quella terra che dovrebbe coprire i corpi dei loro figli, tumulati e ricordati dalle madri che, sporche di quel terriccio, vorrebbero poter condividere il destino dei propri figli.

Tutta la tragedia rimane una profonda riflessione sul ruolo e le conseguenze dei conflitti e la sua conclusione ne è un’ulteriore dimostrazione: lo scontro tra Atene e Tebe, riportato alle supplici dall’araldo ateniese tornato in città, è presentato come una profonda vittoria della prima sulla seconda, nonostante l’ingente massacro delle forze tebane.

Il prezzo della vittoria è analizzato e interiorizzato solo dalle madri che, riottenuti i figli, ne piangono la morte e ne celebrano il funerale, ma la consapevolezza del prezzo da pagare per la loro restituzione le schiaccia sotto il peso della responsabilità. Non conta l’aver riottenuto i propri figli, ma il valore del prezzo di quei cadaveri. 

La pièce si conclude con una promessa di vendetta, in un circolo vizioso dal sapore di morte. I figli dei tebani caduti nello scontro contro Atene giurano di vendicare la morte dei propri genitori: una promessa di sangue di coloro che sono figli del massacro.

crediti: Serena Serrani

Ancora una volta il coro dei bambini è interpretato da quelle sette donne che, pertanto, non sono solo le supplici: sono madri, mogli, figlie, sorelle, ma anche uomini, soldati, padri distrutti dal dolore, fino a essere anche figli del massacro finale; sono l’umanità intera portata in scena per far riflettere su quanto dolore comporti la scelta di uno scontro, anche in nome di una causa più che giusta. 

Ed è così che “quella antica festa crudele“, un po’ come Franco Cardini definisce la guerra, ha il suo ciclo perpetuo fatto di distruzione e di massacri, non saziando mai lo spirito umano. Ciò che rimane è una sconfitta, perché come si può esultare per una vittoria quando il prezzo è la perdita di vite umane? 

La tragedia può essere sintetizzata da una semplice frase che, ripetuta da tutte e sette le attrici, riecheggia anche nella mente dello spettatore dopo che è uscito dal teatro: “abbiamo vinto, ma abbiamo perso”.

crediti immagine iniziale: Serena Serrani

di Erika V. Lanthaler

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