Adorni, ciclista in cima al mondo: “Alzatevi guardando il bicchiere mezzo pieno”

LA PASSIONE PER IL CICLISMO NATA ASCOLTANDO LE IMPRESE DI COPPI ALLA RADIO

AdorniUn palmares ricco di successi conquistati in dieci anni di attività sportiva professionistica: primi su tutti, la maglia rosa del Giro d’Italia nel 1965 e quella iridata di campione del mondo su strada indossata ad Imola nel 1968. Vittorio Adorni, ciclista parmigiano classe 1937, riceverà il 18 maggio – al Teatro Nuovo di Salsomaggiore – la laurea magistrale honoris causa in Scienze e tecniche delle attività motorie dall’Università di Parma.
La laurea gli verrà assegnata a riconoscimento non solo degli illustri risultati sportivi raggiunti in carriera, ma soprattutto per il suo costante impegno nel ruolo di educatore, allenatore, studioso della tecnica sportiva e amministratore pubblico nel mondo dello sport. Attualmente, Vittorio Adorni è Membro della Commisione Culturale e Educazione Olimpico del Cio., Past Presidente del Panathlon International, Membro del Comitato Direttivo dell’Unione Ciclistica Internazionale (Uci), Presidente Internazionale del Consiglio Ciclismo Professionistico (Uci Pro Tour) e Presidente Giuria Premio Internazionale ‘Sport e Civiltà’.

 

IMG_4365.previewTra pochi giorni verrà insignito della laurea Honoris Causa da parte dell’Università di Parma. Cosa ha provato quando è arrivata la comunicazione?

“La burocrazia nel mio caso è stata velocissima. Ho molti riconoscimenti, tra cui il Cavaliere di Gran Croce, ma questa onorificenza rappresenta la ciliegina sulla torta, fa onore – oltre che a me – al mio sport: non ci sono mai stati ciclisti che hanno ricevuto una laurea Honoris Causa. Ad undici anni i miei genitori mi chiesero se volevo studiare o andare a lavorare e io scelsi il lavoro, in quel modo potevo anche aiutare la mia famiglia economicamente. Inizialmente ho lavorato tre anni come orologiaio, poi in una ferramenta e infine come operaio da Barilla. Nel 1967 ho iniziato a mettere le mani avanti sul futuro e – nonostante stessi ancora correndo – ho aperto uno studio assicurativo, dove lavoro tutt’ora insieme ai miei figli. Tutti devono pensare ad avere obiettivi per il domani, in modo propositivo. Le persone devono sempre alzarsi al mattino e guardare il bicchiere mezzo pieno.”

Dove è nata la passione per il ciclismo? 

“La passione nasce da bambino, quando seguivo le corse per radio. Negli anni cinquanta la mia famiglia, a causa della crisi economica, non poteva permettersi di comprarmi una bicicletta, così iniziai a lavorare in una ferramenta e con i primi stipendi acquistai una bici sportiva con il cambio. Le prime vere pedalate le ho fatte, però, con una bici che mi ha regalato successivamente mio padre: in solaio ne conservo ancora il telaio. Insieme ad alcuni amici mi sono poi iscritto alla Laudax Parma, una società di cicloamatori, con cui ho vinto la prima gara a Reggio Emilia. Nel 1955 la Cooperativa ferrovieri mi chiese di unirmi alla loro squadra da competizione; dopo un anno con loro mi trasferii alla Vigor. Il 1959 è l’anno della svolta: iniziai a lavorare come operaio da Pietro Barilla e per potermi allenare mi alzavo al mattino alle quattro; un giorno Barilla mi vede tutto trafelato e mi propone di posticipare l’orario di ingresso al lavoro, in modo che io possa allenarmi con più tranquillità. L’anno del militare mi fanno scegliere se essere mandato di caserma a Parma – che voleva dire casa – oppure a Roma: scelsi Roma, perché lì si disputavano le Olimpiadi del 1960 e la squadra italiana mi aveva chiamato per fare la riserva. Passai professionista nel 1961, chiamato nella squadra di Learco Guerra: a ventiquattro anni ero già vecchio per il ciclismo; di solito si passa professionisti a venti – ventuno anni.”

Campione del mondo ad Imola nel 1968, cosa ha pensato quando ha tagliato il traguardo? 

“Quando stacchi le mani dal manubrio per esultare, è un attimo. Si pensa a tutto e a nulla, ma ciò che prevale è la soddisfazione e la gioia dei sacrifici fatti. Quando rallenti, dopo il traguardo, sei assorbito dalla gente: è una confusione pazzesca, non c’è spazio per capire quello che hai fatto. Il mondiale è una gara speciale, prima di tutto  perché si corre in una giornata sola e non a tappe, per cui ti giochi tutto in quelle poche ore; per questa caratteristica di solito si vince in volata, ma quell’anno fu tutto diverso… Io vinsi staccando tutti, sul secondo avevo 9′ 50”: arrivare al traguardo con nessuno dietro ti dà tranquillità. I chilometri totali erano 230, distribuiti in diciotto giri del percorso, io ne ho fatti 90 in solitaria. Ho anche forato, ad un certo punto, ma non c’era fretta, sapevo che con un distacco così importante non avrebbero potuto prendermi. La maglia iridata è diversa rispetto alla maglia rosa o a quella gialla: ti rimane sulla pelle per un anno, in tutte le gare la devi indossare. Oggi mi ricordano più per la vittoria al campionato del mondo, che per la maglia rosa del Giro d’Italia del 1965.”

Cosa è, invece, mancato nel 1964 dove è salito sul podio al secondo posto?

“Le forze. Il ciclismo sta tutto nel dosare le forze. Nel 1968 sono riuscito a dosare bene, l’esperienza aiuta anche perché conosci meglio il tuo fisico e sai quando è il momento di spingere e quando invece devi mollare. Jansenn, oltre ad essere un grande amico, era un velocista imbattibile e infatti quell’anno non si è smentito in gara. In un mondiale, quando vedi che qualcuno è più in forma di te, speri sempre che capiti qualcosa: una foratura, ad esempio. Se l’avversario perde tempo, hai quella possibilità in più per recuperare secondi preziosi. Nel 1964 non è stato così e sono arrivato secondo, ma onore a Jansenn che ha fatto davvero un’ ottima gara.”

Cosa è cambiato nel ciclismo oggi? 

“Molto. Come è cambiata, del resto, anche la vita rispetto agli anni sessanta. Nel ciclismo cambia l’alimentazione, la preparazione atletica e anche la bicicletta: oggi ci sono biciclette, costruite in carbonio, che non pesano nulla. La cosa più importante è che il ciclismo si è aperto: si disputano gare in tutto il mondo e non partecipano più i soliti italiani, francesi e belgi, ma atleti di tutte le nazionalità; al Giro d’Italia di quest’anno sulla linea di partenza ci sarà anche un etiope. Fino al 1964 c’era un solo dottore per tutti i corridori; oggi ogni squadra ha a disposizione un personale di cinquanta uomini, tra preparatori, medici e meccanici. Il ciclismo oggi ha strutture di alto livello.”

Il ciclismo vive di rivalità: Coppi e Bartali, Gimondi e Merckx, Moser e Saronni. Come mai questa caratteristica? E che potrebbero essere oggi i protagonisti di questa eterna sfida?

 Adorni“Accade la stessa cosa nel calcio tra Inter – Milan o Lazio – Roma. La gente si divide, ci sono i tifosi dell’uno e quelli dell’altro. L’esistenza della rivalità tra due campioni è il benessere del nostro sport, perché se c’è un campione solo la gente si annoia. Sono le grandi rivalità a portare la gente sulle strade, sulle montagne. Quando c’è un campione, il mondo del ciclismo aspetta sempre che ne arrivi un altro, con cui si possano condividere le sfide, le fughe, le salite. E poi la rivalità serve anche ai giornali, alle televisioni: di cosa parlerebbero altrimenti con tanta foga? Credo che tutto ciò sia la grande forza dello sport in generale. I protagonisti di oggi sono Contador, Nibali, Froome e Quintana, ma il problema è che non corrono tutti assieme nella stessa gara. Se corressero sempre assieme sarebbe entusiasmante: l’anno scorso c’erano al tour, poi uno è caduto, l’altro pure e c’è rimasto solo Nibali, che ha fatto certo un bel tour, ma senza nessuno che gli sapesse tener testa. I grandi campioni escono dalle corse a tappa: la prima settimana la fanno tutti, la seconda e la terza iniziano le selezioni, alla quarta ci arrivano solo i campioni.”

Gli sponsor italiani stanno abbandonando il ciclismo, che in questo modo diventa sempre più monopolizzato dalle altre nazioni. Come mai?

“La causa principale è la crisi, che è arrivata nel 2008; da quel momento molte squadre hanno avuto problemi economici. Oggi ci sono sponsor mondiali, di alto livello. Sky ha messo sessanta milioni di euro in quattro anni. Chi si immette nel mondo del ciclismo, deve anche avere un ritorno economico. L’esempio lampante è la Bmc: all’inizio il patron costruiva apparecchi acustici, poi ha creato la squadra di ciclismo e oggi vende biciclette in tutto il mondo. Tutti quelli che sono dentro al mondo del ciclismo, sono sì appassionati, ma sono anche uomini di mercato. Quella degli italiani non è mancanza di interesse, ma un problema economico.”

Vuelta 2013, il canadese Hesjedal cade in una curva, ma la ruota posteriore della sua bicicletta continua a girare da sola. Sanremo 2015, alcune voci dicono di aver visto i corridori tirare i freni sulla salita del poggio. L’ipotesi motorino nella bicicletta è dunque possibile? E’ questo il nuovo doping del ciclismo? 

“Lo dicono. Controllano, ma non l’hanno ancora trovato. Principalmente lo usano gli amatori. Sono stato la settimana scorsa al Politecnico di Milano dove hanno presentato un prototipo di motorino, peraltro già in vendita, che va posizionato nella ruota posteriore: non c’è la batteria, ma pedalando si mette in moto un meccanismo – tipo quello della dinamo – che ti aiuta ad andare. Devo ammettere che ci avevo pensato anche io quando correvo, un motorino nel canotto sarebbe stato un bel aiuto: un’azienda di via Spezia mi aveva fatto un progetto, ma non lo si poteva nascondere ed era impossibile usarlo senza che se ne accorgessero. Oggi lo possono fare, nasconderlo non è difficile e la tecnologia fa miracoli, ma il controllo c’è. Così come c’è sul doping: i corridori devono avere un’ora di reperibilità al giorno per poter essere controllati; gli esami vengono fatti doppi, su sangue ed urina ed è impossibile sfuggire ai controlli: se uno dei parametri sbaglia è semplice concludere che si sono prese sostanze dopanti, con questo sistema non si identifica la sostanza precisa, ma solo l’uso che comunque è sufficiente per l’accusa di doping.”

AdorniQual’è il suo pronostico per il Giro d’Italia, che è ormai sulla linea del via? Come seguirà la Corsa Rosa di quest’anno?

“Penso che Contador farà un gran Giro: quest’anno il percorso è dalla sua parte, oltre alle grandi montagne, c’è una cronometro di 59 chilometri alla quale penso che farà una buona prestazione. L’italiano Nibali pensa al Tour: fare oggi la doppietta è quasi impossibile, inoltre con un percorso di questo tipo, Vincenzo (Nibali, ndr) avrebbe preso quattro minuti da Contador. Io sarò alla partenza di Sanremo con l’incarico di seguire le pubbliche relazioni; è un impegno che prendo volentieri e che ho già svolto in passato anche con il Coni, seguendo le Olimpiadi invernali di Innsbruck e i Giochi del Mediterraneo.”

A suo nipote consiglierebbe oggi di intraprendere una carriera nel ciclismo?

“I miei nipoti hanno preso strade diverse rispetto al ciclismo: le due ragazze hanno puntato su ginnastica artistica e volley, i due maschi sul rugby. Al più grande, ho regalato una bicicletta in carbonio, spero sempre che ne faccia buon uso! La bicicletta, oltre ad essere uno sport bellissimo, è anche un’ottima attività fisica sia per i bambini che per gli adulti: è uno sport anaerobico, quindi non vi è peso eccessivo sulle gambe, in particolare sulle ginocchia. Ancora oggi, nonostante l’età, faccio 30/40 chilometri, tre volte a settimana e mi sento rinascere.”

Domanda di rito: Coppiano o Bartaliano?

“La mia passione per il ciclismo è nata seguendo le imprese di Coppi alla radio, ero un suo grande tifoso; ma anche Bartali è stato un grande campione.”

 

di Chiara Corradi, Luisa Di Capua, Emanuele Maffi

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*