Se sapessi cosa c’è dentro non lo mangeresti

SURIMI, WURSTEL, OLIO DI PALMA SONO ALIMENTI E INGREDIENTI COMUNI, MA SAPPIAMO REALMENTE COSA CONTENGONO?

Olio di palmaPrendete una confezione di pane in cassetta, una di biscotti, una di merendine e una di crema alla nocciola. Leggete gli ingredienti. Troverete quasi sicuramente tra i primi 5 l’olio di palma: un olio vegetale ricavato dalle palme o dai loro semi. Si tratta di una tipologia di olio particolarmente ricca di grassi saturi ma, a livello grezzo, contiene anche una buona dose di antiossidanti. Le industrie alimentari, però, nella stragrande maggioranza dei casi, usano l’olio bifrazionato di palma ottenuto dalla raffinazione dell’olio di palma attraverso un procedimento chimico che mantiene elevate le quantità di SFA (Satured Fatty Acid), eliminando tutte le proprietà antiossidanti.

L’olio di palma è largamente utilizzato per una ragione semplice: costa poco. Ma un risparmio a che prezzo? Questa tipologia di olio presenta una percentuale del 50% di acidi grassi saturi che fanno aumentare in maniera considerevole la presenza nel sangue di trigliceridi e colesterolo Ldl (ovvero, a bassa densità di lipoproteine, meglio conosciuto come colesterolo ‘cattivo’).
SoldatiÈ bene precisare, però, che l’olio di palma non fa male in assoluto ma è il suo vasto utilizzo nell’industria alimentare che lo rende un elemento pericoloso per la salute, in quanto si trova in gran parte dei cibi confezionati che vengono quotidianamente consumati perlopiù da bambini e adolescenti. A sottolineare un altro aspetto non meno importante è un rinomato ‘addetto i lavori’, lo chef Marco Soldati, docente di Tecniche di cucina presso la Scuola Internazionale di Cucina Italiana di Colorno Alma. “Ogni volta che c’è una grande industria che inventa un prodotto che costa di meno, il valore di questo prodotto è rubato da qualche parte – spiega -. Se quest’anno l’olio di oliva costa 12 euro al litro e l’olio di palma 1 euro a litro, gli 11 euro che mancano li pagheremo con l’inquinamento ambientale, con la deforestazione, con le popolazioni sfruttate, con la nostra salute. Ripagheremo tutto e con gli interessi.”

E COSA C’E’ NEL WURSTEL DI POLLO? –  Se prendete una confezione di wurstel di pollo, sull’etichetta troverete scritta una determinata percentuale di ‘carne separata meccanicamente’ o ‘Csm’. Cosa vorrà dire questa dicitura? Significa che la carne, sia essa di pollo, maiale o tacchino, viene staccata dalle ossa attraverso dei macchinari. Si tratta di un “prodotto ottenuto mediante rimozione della carne da ossa carnose dopo il disosso o da carcasse di pollame, utilizzando mezzi meccanici che conducono alla perdita o modifica della struttura delle fibre muscolari”, come si legge in un definizione dell’UE riportata in un documento del 2 dicembre 2010. Ciò significa che la carne utilizzata per confezionare i wurstel è la carne che rimane attaccata alle ossa dopo che sono stati tolti i pezzi più pregiati. Ci sono due tipologie di ‘Csm’: una è la ‘carne separata meccanicamente ad alta pressione’, l’altra è invece ‘a bassa pressione’. Sempre in riferimento all’uso industriale di ‘Csm’ e alle pratiche igieniche ad esso connesse, si pronuncia anche l’Efsa (Autorità Europea per la sicurezza alimentare) secondo la quale “ i processi produttivi ad alta pressione aumentano il rischio di crescita microbica. Infatti tali processi provocano una maggior degradazione delle fibre muscolari e, insieme a ciò, un rilascio di nutrienti, i quali forniscono un sostrato favorevole alla crescita batterica.”

E NEI BASTONCINI DI PESCE? – Paradossalmente Findus, azienda alimentare italiana specializzata in prodotti surgelati,  fino a qualche tempo fa si approvvigionava di pesce di ottima qualità, pescato in maniera sì industriale, ma comunque fresco e sano. In particolare il pesce più utilizzato era il Black cod, merluzzo proveniente dal nord America la cui pesca intensiva però ne ha ridotto drasticamente e in maniera irreversibile il numero di esemplari. A fronte della carenza di materie prime selezionate, a rimetterci è la qualità. Ci si deve rendere conto che quando si paga poco un prodotto è molto probabile che qualcuno prima o poi ci rimetterà ogni singolo centesimo risparmiato, se non di più. Che si tratti di persone sfruttate o di danni ambientali, il fatto che eventi del genere si verifichino lontano dagli occhi del consumatore non può indurlo ad una spesa “ingenua”, poco consapevole.

surimiVALE LO STESSO PER LE CHELE DI GRANCHIO INDUSTRIALE E IL SURIMI? – Per questo tipo di preparazioni in origine le ricette erano addirittura raffinate: la chela di granchio proveniva dal Green crab, specie tipica dei mari del nord a cui veniva recisa una parte di carapace per poi essere fritta o bollita; il surimi è invece una preparazione di origine giapponese, una sorta di estruso di pesce macinato. La reinterpretazione industriale di questi prodotti li ha snaturati, trasformando la chela di granchio in una sorta di polpetta fatta di surimi, il quale a sua volta è prodotto con scarti e ritagli delle più disparate specie, trattate in pratica come carne separata meccanicamente e il cui gusto viene “addomesticato” con additivi.

E DA DOVE VIENE LA CARNE USATA PER FARE IL DADO? – Quando e se viene usata la carne. Perché se avete tra le mani una confezione di ‘preparato per il brodo’ potete notare che il primo ingrediente è il sale, il secondo in molti casi è il grasso di palma o il gluttamato monosodico e il terzo è rappresentato dalle proteine vegetali. La carne è tra gli ultimi ingredienti elencati nell’etichetta. Nonostante presente in bassa percentuale, chiedersi da dove venga quella carne non sembra inutile. Nella tradizione italiana per la versione ‘gourmet’ del dado vengono usate le ossa dei bovini allevati per la macellazione. Dunque che nel dado ci siano le ossa, tendini o cartilagini, come afferma Marco Soldati, “non è uno scandalo”. “Anzi – aggiunge lo chef – siamo sostenibili perché usiamo l’intero bovino senza scarti. Lo stesso vale, ad esempio, per la carne in scatola. Conservare significa non sprecare…ma si ritorna al solito problema: che carne si conserva nelle scatolette?”.  Lo scandalo arriva quando ci chiediamo quali prodotti vengono usati per fare il dado: “Quelle ossa da dove vengono? Dato il potere Usa nelle logiche di import-export è difficile sapere se le ossa utilizzate per fare il brodo derivino da carni allevate ad anabolizzanti”. Purtroppo non sempre è dato saperlo dato. Ma qualcosa si deve pur fare:  lo chef Soldati immagina un tavolo in cui le multinazionali dell’industria agroalimentare si siedono con piccoli produttori e cuochi, un tavolo in cui si dialoga e si trova una soluzione per rendere sostenibili anche i prodotti industriali. Utopia? Forse. Ma si potrebbe iniziare semplicemente mangiando frutta e verdura di stagione, perché “significa salvare l’ambiente. Dare valore al cibo e alla terra che ce lo offre. Fare un passo indietro per andare avanti.”

A questo punto rimane una sola domanda a cui rispondere: di chi è la colpa?
Si potrebbe dire che sono le multinazionali, con il loro business che spesso risponde più alle logiche di mercato che ad attenersi ai corretti principi nutrizionali , o i governi che non tutelano abbastanza il consumatore; oppure ci si potrebbe guardare allo specchio e ammettere che le informazioni per un alimentazione equa sono a portata di clic ed è solo nostra responsabilità il gesto ultimo di estrarre i soldi dal caro portafoglio per comprare un prodotto più o meno “buono”.
Il consumatore ha l’ultima parola su tutto e per quanto le multinazionali e i governi possano non agevolarlo, dispone fortunatamente di tutti gli strumenti per diventare consapevole.
Rimane però un limite alla critica al sistema agroalimentare attuale: ha permesso un accesso al cibo che mai prima avremmo potuto immaginare. Giudicare con la pancia piena risulta facile, ma sarebbe realmente interessante considerare uno scenario in cui il cibo, per riappropriarsi della propria dimensione di bontà nutrizionale, etica e ambientale, costi quattro o cinque volte il prezzo attuale. Prendete la spesa alimentare annua di una famiglia media e moltiplicatela per quattro. Quali sarebbero le conseguenze?

 

di Matteo Buonanno Seves e Marta Costantini

1 Commento su Se sapessi cosa c’è dentro non lo mangeresti

  1. salve, suggerirei di indagare anche le polpette di pesce, i burger dove non
    dichiarano che pesci usano frammentati… sono molto economiche perche’ ottenute con scarti, ma cosa ci finisce dentro? anche le frattaglie? le interiora?

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