L’arte e la rete: una relazione ambigua

ANALOGIE E DIFFERENZE TRA FRUIZIONE DELLA CULTURA E L'USO DEL WEB: CHE FINE FA IL SENSO CRITICO?

WARHOLdi Danila Bertasio, docente di Sociologia dei processi culturali ed educativi |

Nonostante i musei siano frequentati più che in passato è difficile non avvertire la sensazione che l’arte corra sempre più il rischio di essere concepita come un fatto sociale, piuttosto che culturale. Nell’XI secolo il culto delle reliquie aveva accelerato la costruzione delle abbazie e stabilito nuove vie di comunicazione. Oggi è il culto delle opere d’arte che spinge a costruire i nuovi templi e regola le grandi transumanze culturali del turismo occidentale. “Si sfila in processione davanti ai quadri con la stessa devozione con la quale un tempo si venerava il corpo di san Filiberto. Non è sicuro tuttavia che l’opera d’arte sia oggetto di un’eguale infatuazione” ( Clair, 1984, 14). Non è un caso che gli obiettivi delle ricerche di mercato si concentrino sulla consistenza dei gruppi in visita e su quanti minuti sono dedicati ad ogni sala: l’importante è comprendere se valga o meno la pena di definire strategie in grado di trattenere per più tempo il pubblico e, soprattutto, se questa scelta comporta un vantaggio di tipo economico e pubblicitario.

Non mi inoltrerò nella polemica sempre calda fra pubblico e privato, su un principio, però, entrambi sembrano concordare: definire programmi espositivi, costruiti sulla base di supposti bisogni estetici di ‘utenti standard’ e di un ipotetico e cangiante ‘gusto estetico’. Perché accade questo? Perché non ci si interroga di fronte alla frammentazione delle nostre esperienze estetiche e ci si accontenta delle emozioni che ci trasferiscono la  moda, l’oggettistica o l’arredamento? Insomma, vale proprio la pena di privilegiare la tendenza contemporanea a godere esteticamente dell’esistenza, nella mera immediatezza del suo svolgersi? E, questo, può davvero garantire un futuro per l’arte?

Si tratta di domande davvero stringenti soprattutto per il fatto che nessuno si meraviglia che il bisogno antropologico del bello sembra disperdersi negli innumerevoli rigagnoli della nostra quotidianità. La tendenza alla contaminazione estetica di mondi paralleli, a volte palesemente incompatibili, mette in luce il vero problema di fondo, cioè che in realtà, oggi l’arte non è affatto amata. Parrebbe che il nostro tempo, apparentemente così disponibile a qualsivoglia forma di espressività e di comunicazione, trascuri la forma di espressione più degna. Le profetiche parole che Hegel scrive nell’Estetica assumono in questo contesto una rinnovata consistenza, in particolare quando sottolineano che: “I bisogni estetici sono in certa misura vaghi e inarticolati, anche le pratiche dell’industria culturale non dovrebbero aver fatto quei grandi cambiamenti che invece ci vogliono far credere e che facilmente si suppongono. Il fatto che la cultura sia fallita rivela implicitamente che i bisogni culturali soggettivi, separati dall’offerta e dai meccanismi di diffusione, propriamente non ci sono. Lo stesso bisogno di arte è ampiamente ideologico; si potrebbe vivere anche senza arte non solo obiettivamente, ma anche secondo l’economia spirituale dei consumatori che, mutando le condizioni della loro esistenza, si possono indurre senza  fatica a cambiare gusto, purché il cambiamento segua la linea del minimo sforzo”. (Hegel, 1976,16).

Peraltro, non è certamente il caso né di biasimare l’artista né di accettare acriticamente il fatto che il pubblico non sembra ricercare elementi per comprendere davvero; è però inevitabile riflettere sul fatto che il distacco fra il mondo dell’arte e il pubblico sta producendo una serie di fragilità culturali in entrambi. Da un lato, questo distacco ha visibilmente allontanato i pensieri dell’artista dai contenuti consueti dell’esistenza e li ha spesso ricondotti a problemi tecnici, portandolo spesso ad accontentarsi dei piccoli brividi emotivi della propria corte. Dall’altro, per quanto riguarda il pubblico, si assiste alla scomparsa della richiesta, stimoli percettivi che soltanto gli artisti possono offrire.

Insomma, il rapporto che il pubblico pare generalmente preferire e che fa temere che l’arte sia sempre più intesa come oggetto di utenza, ha qualche interessante  analogia con il rapporto che generalmente stabiliamo con un altro settore della fenomenologia culturale, quello che si può individuare nell’interazione con le nuove tecnologie. Proprio nel modo in cui le utilizziamo, ci possiamo rendere conto che ad esse demandiamo sempre più la ricerca di soluzione di problemi anche di natura sofisticata, evitando così quote crescenti di analisi e di approfondimento. In altre parole, il tipo di approccio che stabiliamo con esse mette in luce pienamente una tendenza culturale secondo la quale  la conoscenza è sicuramente importante per l’essere umano, ma solo alla condizione di poterla perseguire evitando i modelli del pensiero critico e le perturbazioni intellettuali che contraddistinguono il lavoro dell’artista,  così come quello dello scienziato e del filosofo. Vale a dire informazione al posto di conoscenza; utenza al posto del pensiero critico. Non è un caso che il successo delle tecnologie avanzate sia largamente attribuibile proprio al fatto che software e hardware, nell’accezione più ‘allargata’ dei termini, siano sempre più accuratamente progettati per un pubblico convenientemente generico e indistinto, percepito come bisognoso delle prestazioni della macchina, anche se privo di interesse sia per la sua provenienza scientifico-tecnica sia per la sua  contestualizzazione storica.

arte pcAnche l’arte e le sue vite, attraverso le varie forme di snaturamento mediatico sono trasformate in un messaggio, ricco di un superficiale senso di ‘umanità’ ad alta riconoscibilità, ma povero di reale problematicità intellettuale. Il potere salvifico della trasformazione del vissuto collettivo in immagine, aiuta ad auto-ingannarci, ad immaginare di potersi elevare, senza troppa fatica, al di sopra della quotidiana battaglia per la sopravvivenza, fisica, sociale e mentale, a camuffare e a non più riconoscere le vere esigenze dell’essere al mondo: tutto può diventare evasione, divertimento, spettacolo, passatempo, lusso.

Quello che accade non è ‘colpa’ della tecnologia, né di particolari congiure: anzi, al contrario, la tecnologia può offrire nuove e più suggestive possibilità di apprendere e conoscere, essendo particolarmente flessibili, si pre-dispongono, in linea di principio, ad una scelta autonoma di impiego. Tuttavia, è proprio il loro utilizzo ‘medio’, che ci consente di rilevare quali siano le motivazioni e i criteri socialmente dominanti, quelli che, in una parola, si impongono attraverso le preferenze concretamente espresse dagli utenti. Non c’è, dunque, da parte nostra una sorta di caccia alle streghe tecnologiche, piuttosto, quello che ci interessa è osservare che le tecnologie, come è per il caso di Internet, sono così intrinsecamente potenti, tanto appariscenti quanto poco conosciute nei loro processi interni, che si pongono sul mercato all’attenzione di possibili acquirenti ed estimatori, senza esigere particolari capacità tecniche,  rivelando motivazioni, attitudini e concezioni che, generalmente, hanno in comune il fatto di essere intellettualmente sempre meno costose. Pur disponendo del massimo di arbitrio nel decidere a quale livello d’uso collocarsi è decisamente improbabile che l’utente decida di esplorare i siti che riportano le ultime scoperte di fisica sub atomica, se ciò non corrisponde ad un’attitudine preesistente.

Certamente, chi naviga in rete può vivere un’esperienza genuinamente esplorativa, poiché Internet offre una struttura altamente dinamica ma tende a trascurare che  il ‘navigare’ assume i contorni di un’espressione priva di senso se non si è orientati da precisi progetti di viaggio, e, dunque, da qualche ipotesi sulla meta che si vorrebbe idealmente raggiungere.  Storia e cronaca convergono nel dimostrare l’inadeguatezza sia dei detrattori – che paventano chissà quali catastrofi indotte dalle innovazioni tecniche – sia degli iperentusiasti che cullano ancor oggi l’idea che la conoscenza non sarà più un privilegio per pochi eletti, perché il sempre più elevato accesso alla possibilità di rendere pubblico il pensiero assicurerà una sua inusitata produzione. Evitando sia l’una che l’altra posizione, emerge però una verità empirica che, generalmente, è percepita solo con grande ritardo: il successo dei dispositivi tecnologici è implicito nel fatto che essi non possiedono alcuna intrinseca capacità motivante o nobilitante: semmai, essi possono agire, come fonte di conoscenza, come lo può fare un viaggio in un luogo sconosciuto. Tutto dipende dagli ‘occhi’ del viaggiatore. Nessuno dubita che l’informazione circolante sia aumentata e destinata ancora ad aumentare: Tuttavia essa è resa accessibile da sistemi operativi, procedure e linguaggi fortemente tarati su necessità e capacità medie. La circolazione delle informazioni  di conseguenza aumenta, ma non gli corrisponde nessun aumento verificato di attitudini critiche che non siano esse stesse ricondotte a modalità medie di ragionamento, ossia esattamente alle forme richieste dalla razionalità tipica del senso comune.

Dunque, nonostante le nuove tecnologie consentano di fare in modo che l’informazione circoli con maggiore facilità rispetto al passato, non pare siano correlatamente aumentate le capacità critiche. In definitiva, è intuitivo che un accostamento alla conoscenza che segua le linee sopra descritte, si ponga in stretta analogia con l’accostamento al mondo del Kitsch, ma non certo con il mondo della grande arte. Infatti, da un lato l’appropriazione di conoscenze, quelle artistiche, come del resto quelle scientifiche, è perseguita dalla maggior parte del pubblico tramite strategie e tecnologie facilitanti, capaci di fornire i risultati dell’impresa conoscitiva più che di immergere l’uomo nella sua ideazione e realizzazione. Dall’altro, l’appropriazione della realtà,  grazie a riproduzioni, falsi, copie, imitazioni, rende agevole, ma inesorabilmente riduttivo e mediocre, il processo di valutazione estetica del mondo e dell’opera dell’uomo.

Riflettendo poi sulle politiche legate ad una valorizzazione dell’arte, si può comprendere che perseguire strategie facilitanti in realtà indica l’emergere di obiettivi pragmatici di dubbia consistenza culturale. Giustamente Callagaro,  scrive: “ Le arti erano considerate nei secoli passati cosa molto importante per tutte le loro funzioni, cioè da rispettare. Oggi non si sa bene quali funzioni sociali assolvano, né a cosa servono nella sostanza. Per cui non si riconoscono alla pratica degli artisti effetti e funzioni autorevoli. Non ci sono committenti che sappiano esattamente cosa l’arte gli serva e siano consapevoli della sua importanza. Il committente contemporaneo è il pubblico stesso, che vagamente sa che l’arte serve ad intrattenerlo, per cui, alla fine, non è cosa da prendere sul serio (cfr., Callagaro, 2003, p.56).

La ‘flessibilità’ culturale dei nostri tempi consente di ‘diluire’ il concetto di arte in mille rigagnoli, presuntuosamente o ingenuamente nell’illusione che, calandola anche nelle più noiose esperienze quotidiane, il suo significato non andrà disperso ma, al contrario, saranno le esperienze quotidiane ad uscirne nobilitate. Ovviamente, qualsiasi posizione si possa assumere al riguardo, appare chiaro che  la disinvoltura con cui i produttori di messaggi – siano essi a sfondo commerciale o divulgativi – veicolano le opere d’arte, non ha nulla a che vedere con una corretta mediazione o, meglio, formazione del pubblico verso l’arte in quanto attività intellettuale.

L’arte, in fondo, si rivolge a tutti, ossia all’uomo in quanto tale, ma non come l’aria che respiriamo, bensì come qualcosa che ha bisogno di una certa ‘durata’ di riflessione per essere metabolizzata e per entrare a far parte del nostro patrimonio di conoscenze.  Ne consegue ad esempio che lo smembramento strumentale delle opere, la loro utilizzazione per fini commerciali, nonché la loro collocazione in contesti che ne rendano più agevole la visione, rappresentano una evidente forma di indulgenza verso le esigenze e i limiti di un utente il cui interesse si ritiene, implicitamente, orientato spontaneamente verso altri obiettivi e altri valori.

Tutto questo, contribuisce ad impoverire ulteriormente quel che ancora resta di quella speciale aura che ancora circonda le opere d’arte e a ridurre, di conseguenza, la possibilità di ritrovare il bisogno di un esercizio interiore, un bisogno che può dare un ulteriore significato alla nostra esistenza e che può essere soddisfatto soltanto confrontando la nostra visione del mondo con quella di un’artista. Ciò che tale confronto richiama è, infatti, una riflessione circa il rapporto fra verità e senso, una sorta di dialogo tacito che può sottolineare lo svolgersi di tutta la nostra esistenza: un’esistenza che non è un semplice fluire di accadimenti, ma, come ricorda Backhin, una sorta di dialogo perenne col mondo e con altre vite, una ricerca ininterrotta per la comprensione della sua stessa complessità.

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