Martin Chalfie: un Nobel, un uomo e la magia luminosa delle Gfp

OSPITE ALL'UNIVERSITÀ DI PARMA HA RACCONTATO AGLI STUDENTI LA SUA ESPERIENZA UMANA DI SCIENZIATO TRA AMICIZIE, COLLABORAZIONI E FINANZIAMENTI MAI RICONOSCIUTI

IMG_01731Il lato umano delle scienze naturali: non è un ossimoro, è semplicemente la propensione obbligata di ogni conoscenza. Collaborazione che a volte sfocia in amicizia, memoria, solidarietà e riconoscimento sono valori che, coniugati in un laboratorio biomolecolare, possono portare a scoperte sensazionali e a volte al Nobel. Senza trascurare però l’aspetto capitale: finanziare la ricerca. Sono questi i principali temi toccati dal Nobel per la chimica Martin Chalfie, lo scorso 17 dicembre ospite dell’Ateneo parmigiano per la conferenza Gfp: Lighting Up Life organizzata nell’ambito degli eventi per l’Anno Internazionale della Luce promossi dall’Università di Parma. Un luminare, è proprio il caso di dirlo, il professore della Columbia University di New York che nel 2008 fu insignito del prestigioso premio per i suoi studi nel campo della bioluminescenza, in particolare in relazione alla proteina detta fluorescente verde o Gfp, acronimo di Green Fluorescent Protein: una rivoluzione nel panorama delle scienze biologiche.

imagesJTSP67TIILLUMINANDO LA VITA – Ad aprire i lavori nell’Aula Magna del Palazzo centrale di via Università, gli interventi introduttivi dei professori Viappiani, De Renzi e Cucinotta, tutti provenienti da vari dipartimenti scientifici dell’Università di Parma, che hanno poi lasciato la parola a Chalfie. Narrando con piacevole ironia la storia della sua scoperta, il professore non si è risparmiato nel citare i nomi dei suoi collaboratori che hanno contribuito generosamente (molti dei quali senza ricevere alcun riconoscimento) ai risultati sperimentali che hanno portato al Nobel. Ha rimarcato la netta differenza tra quello che sapeva degli scienziati (misteriosi personaggi in camice bianco perennemente rinchiusi in laboratori asettici e deprivati di ogni contatto umano; certosini lavoratori che hanno fatto della solitudine e dell’individualismo la loro religione di vita) e quello che invece ha imparato per diretta esperienza durante il suo percorso. Citando l’esempio noto di Marie Curie o quello meno noto, ma importantissimo, dell’afroamericano George Washington Carver, Chalfie ha voluto sottolineare come spesso l’umanesimo si coniuga alla scienza attraverso vicende storiche trasversali e contigue. È emblematico il caso di Carver. Morto nel 1943 è stato un ricercatore botanico statunitense ed educatore nel campo dell’agronomia. A tale titolo lavorò al Dipartimento di Agricoltura dell’Istituto Tuskegee, in Alabama, insegnando sul campo ad ex schiavi le tecniche di agricoltura per l’autosufficienza. Radici comuni dato che fu lui stesso uno schiavo presso la famiglia Carver del Missouri che, dopo il 1865, anno dell’abolizione della schiavitù, lo fece studiare. Insomma: il genio e la scienza non hanno preclusioni né di genere né di razza. Tra altri esempi noti, come quello del ricercatore giapponese Osamu Shimomura anche lui insignito del Nobel, ci sono poi quelli meno fortunati come il biologo molecolare Douglas Prasher: uno dei talenti più grandi della ricerca americana nel campo della clonazione e della sequenzazione dei geni della Gfp. Fu proprio lui a suggerire a Chalfie di utilizzare questa molecola come marcatore. Purtroppo nel 1992 fu costretto ad abbandonare i suoi progetti per mancanza di fondi: non gli furono mai riconosciuti. Tutto ciò a testimoniare come il premio Nobel, il prestigio, la notorietà, siano elementi secondari rispetto alla vicenda umana, spesso determinante per il progresso scientifico. Tra le lezioni più importanti di questa esperienza, Chalfie né annovera due fondamentali:”University and grant support was essential” e ancora: “Students and postdocs are the lab innovators“. Concetti da non dare per scontati  in Italia, dove i fondi alla ricerca si assottigliano sempre più e i cervelli, si sa, scappano all’estero perchè lì sentono di essere meglio considerati.

images3C4R8FKAGFP: LE IMPLICAZIONI SCIENTIFICHE – Ma quali sono le implicazioni più prettamente scientifiche della scoperta che è valsa il Nobel? Sono diverse e interessanti. La proteina Gfp è ideale come marcatore biologico perché il suo utilizzo non fa male; per le sue ridotte dimensioni ma soprattutto perché permette di osservare il comportamento molecolare in una cellula viva e non morta com’era avvenuto fino a prima di questi studi. Le applicazioni vanno dalla medicina (studio della formazione delle metastasi tumorali, dei meccanismi del contagio da Hiv, sulla degenerazione delle cellule cerebrali negli studi sul morbo di Alzheimer, sullo sviluppo dei batteri nocivi) a quelle più insospettabili dell’industria e dell’arte. Ad ogni buon conto, la sensazionalità più importante della scoperta sta nel fatto che questa proteina, espressa nella medusa Aequorea victoria, può essere usata come marcatore in medicina, permettendo, nella prevenzione diagnostica delle malattie, di osservare quello che avviene nelle nostre cellule e di intervenire tempestivamente.
Dove vengono attivati i geni? Dove si trovano le proteine all’interno dei tessuti? Come cambia l’attività cellulare nel tempo e come può essere studiata e manipolata? La luce naturale di questa proteina serve proprio a valutare tutto questo.

 

di Michele Panariello

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