‘Rifugiati in casa’: porte aperte in nome dell’integrazione

UNA QUARANTINA DI FAMIGLIE HANNO ADERITO AL PROGETTO DEL CIAC, NOVE QUELLE CHE HANNO GIA' ACCOLTO UN TITOLARE DI PROTEZIONE


“La cosa più sorprendente che ci viene spesso riportata è un senso di normalità. Sono in molti a dire che alla fine non c’è niente di strano o di così eroico. Le incomprensioni si risolvono tutte nello scambio quotidiano con una risata”. Parola di Chiara Marchetti, coordinatrice del progetto ‘Rifugiati in famiglia’ del Ciac, il centro immigrazione, asilo e cooperazione internazionale di Parma, artefice di una proposta innovativa ed al passo con i tempi. Una proposta che da una parte offre ai profughi l’opportunità di rifarsi una vita e dall’altra alle famiglie di potersi mettere in gioco con i propri pregiudizi. Per poter iniziare concretamente assieme quel percorso lungo e difficile dell’integrazione, nel quale non servono grandiosi atti eroici. Basta la semplicità di aprire la propria porta di casa e del proprio animo.

 COME FUNZIONA IL PROGETTO – Rivolto alle famiglie di Parma e provincia, il Ciac chiede loro di ospitare un rifugiato all’interno della propria abitazione, offrendogli uno spazio personale ove risiedere e impegnandosi in attività di socialità ed orientamento al territorio. Tale esperienza può avere un periodo massimo nove mesi, un arco di tempo ritenuto sufficiente affinché tale ‘adozione’ possa possa diventare un trampolino per l’autonomia della persona ospitata. Il tratto distintivo del progetto, infatti, è quello di offrire una seconda accoglienza ad alcune delle oltre 150 persone che stanno concludendo il percorso annuale all’interno dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), in cui si inserisce questa proposta da parte della onlus, orientando il tutto verso la costruzione di relazioni sociali con la comunità. In altre parole, “far sì che il rifugiato, già in possesso dello status di profugo, possa iniziare a stabilirsi in un territorio, tramite Rifugiati in casaun periodo di vita in famiglia in città”, spiega ancora Marchetti. “Vi sono persone che dopo aver maturato una certa
integrazione rischiavano di trovarsi in strada, dopo che hanno investito in percorsi di formazione linguistica e lavorativa – motiva la coordinatrice – e mancava inoltre una relazione ‘calda’ con i residenti del territorio; diventava così difficile avere una possibilità nel mercato lavorativo ed abitativo al termine del progetto di integrazione istituzionale”. Per facilitare la disponibilità e la convivenza di un profugo sotto il proprio tetto l’iniziativa prevede due livelli di sostegno, uno economico ed uno tecnico. Per quanto riguarda il primo è previsto un rimborso alle famiglie di 300 euro mensili, tramite un sistema di rendicontazione controllato per contribuire alle spese quotidiane e “far sì che anche coloro che hanno difficoltà economiche possano avvicinarsi al progetto”. Sul lato tecnico,invece, è presente un’equipe di lavoro come garanzia durante tutto l’arco del progetto, tramite visite periodiche e supporto ai rifugiati in competenze e capacità che esulano dalla responsabilità domestiche, come l’avvio ai percorsi di formazione o di lavoro. E’ presente inoltre una psicologa che “ha il compito di seguire i percorsi degli individui tramite colloqui con le famiglie ed i rifugiati, prima e dopo l’ingresso nell’abitazione, per valutare quali sono gli abbinamenti migliori e favorire una convivenza proficua”.

I CRITERI DI SELEZIONE – Come avviene dunque l’abbinamento dei richiedenti asilo con i nuclei abitativi? Tramite dei criteri di selezione che tengano conto delle esigenze di chi ospita e di chi viene accolto. Per quel che riguarda le famiglie si indaga sopratutto sulla motivazione, senza comunque trascurare l’aspetto concreto di uno spazio personale per il profugo, affinché si possa facilitare la convivenza nel lungo periodo. Per quanto riguarda gli ospiti, invece, questi ultimi devono essere già in possesso di un permesso per protezione, avere una discreta conoscenza della lingua italiana per entrare in una relazione positiva con la famiglia e l’ambiente lavorativo ed infine essere interessati ad insediarsi sul territorio. L’abbinamento vero e proprio tiene conto dei vincoli pratici, “come la collocazione delle abitazioni, il collegamento con i servizi pubblici, i turni lavorativi delle famiglie e dei rifugiati e buon raggiungimento dei luoghi di lavoro”.

CHI SONO E DA DOVE PROVENGONO – Come riporta la coordinatrice, i luoghi da cui partono i richiedenti asilo corrispondono in prevalenza alle aree dell’Africa sub-sahariana, come Nigeria e Gambia, e da quelle del ‘Corno d’Africa’ orientale, come la Somalia e l’Eritrea. Non mancano comunque anche soggetti che partono da Bangladesh e Pakistan. In città, come del resto in Italia, è da registrare l’assenza dei siriani, in quanto essi hanno come meta del loro viaggio i paesi del nord Europa. Un’altra caratteristica a dir poco interessante è l’identità degli individui che arrivano a Parma. Sono infatti ragazzi, perlopiù maschi e di giovane età: quest’ultima si è abbassata notevolmente negli ultimi tempi per la presenza di ragazzi minorenni e neo maggiorenni. In generale di individui sotto la fascia dei 30 anni, ponendo importanti e sensibili questioni su come organizzare l’accoglienza ed i vari percorsi formativi ed educativi.

images (1)ALCUNE DIFFICOLTA’ – Attualmente sono concretamente partite 9 accoglienze, su un disponibilità di una quarantina di famiglie interessate ad aderire al progetto. “Per la seconda annualità stiamo cercando 10 famiglie pronte ad accogliere” dichiara Marchetti, ma ci sono alcune difficoltà che impediscono la buona riuscita dell’opera. “Nei nostri progetti ci sono circa una settantina di titolari di protezione su quel totale di 150 che rappresentano il nostro bacino iniziale di persone – continua la coordinatrice – ma non da tutti i profughi tale esperienza è ben accetta”. Da una parte vi è una possibile riluttanza da parte degli stessi rifugiati nel vivere un’esperienza del genere, per motivi personali oppure per via del loro vissuto. Dall’altra vi sono spiegazioni legate perlopiù al contesto di diffidenza dilagante nella società attuale. Come racconta Chiara Marchetti, “una volta un rifugiato mi disse di aver messo in conto di fare la fame o di dormire fuori, nella stazione. Quello che non riesce ad accettare come persona è il fatto di non essere visto, di essere invisibile”.

UNA NORMALE VITA IN FAMIGLIA –  Eppure i risultati sono incoraggianti. Le dinamiche che si vengono ad instaurare tra il rifugiato ed i membri della famiglia, dettate dal vivere quotidiano, fanno sì che si vengano effettivamente a creare dei rapporti di amicizia e di rispetto reciproco. E nel caso di incomprensioni, tutto si risolve con una battuta o in un civile confronto. Ma non mancano momenti ulteriormente utili ad abbattere ogni barriere. Ad esempio, come riporta ancora la coordinatrice del progetto, quando un rifugiato si mette a disposizione per cucinare “succede che c’è un’attenzione quasi morbosa, che si traduce in occasioni piacevoli, da parte del vicinato e dei parenti che si fanno invitare a cena o a vedere cosa accade”. L’esperienza che sembra solo famigliare diventa così patrimonio di una comunità allargata. Un aspetto molto singolare è poi il rapporto con i bambini. “Molte famiglie hanno detto fin dall’inizio di aver fatto questa scelta Rifugiati in famigliapensando di far vivere ai loro bambini, anche molto piccoli, un esperienza quotidiana di convivenza con la diversità e metterli a contatto diretto con queste realtà che possono anche far paura. La loro ‘disinvoltura’ poi ha fatto sì che potessero affidarsi ai rifugiati e fare loro delle domande, sedendosi sulle ginocchia e leggendo un libro assieme”. Dal punto di vista dei rifugiati, riprende poi Marchetti, “essi ci raccontano che, a parte il fatto molto emozionante di ritrovarsi a vivere in una famiglia dopo quella che hanno lasciato, il sentirsi a loro agio con i bambini, è come avvicinarsi a qualcuno che come loro sta imparando l’italiano”. Così, facendosi compagnia durante le letture della buonanotte, non solo il linguaggio semplice dei bambini risulta utile per i profughi, ma entrambi vivono un’esperienza comune con la diversità. Anche perché, conclude la coordinatrice, “conoscendo queste persone nel contatto, come il vicinato, i colleghi di lavoro, i genitori dei compagni di classe dei figli si arriva a conoscere qualcosa che proviene dal racconto diretto del profugo, e non dalla televisione o dal giornale”.

PROGETTI FUTURI – In questo senso sono orientate le prossime proposte tramite le quali il Ciac si sta dedicando per poter favorire maggiormente questo sviluppo di legami sociali e comunitario e più in generale di alimentare lo scambio interculturale. In questa prospettiva rientrano due collegamenti con il mondo universitario. Come descrive Marchetti, “abbiamo avviato una collaborazione proficua con l’Università di Parma, corso di Psicologia sociale, nel quale gli studenti stanno compiendo una ricerca scientifica sulle prime accoglienze intervistando e visitando famiglie e rifugiati per giungere non solo ad una elaborazione di un’impronta di chi vive in diretta questa esperienza, ma mettere a frutto le tecniche della ricerca scientifica per arrivare a comunicare all’esterno, alla cittadinanza i risultati di questo tipo di esperienza strutturate in Italia”. Si registra inoltre la messa in atto del progetto ‘Tandem‘, il quale prevede una coabitazione tra i giovani rifugiati e studenti dell’università in appartamenti in co-housing, i quali si impegnano in attività di volontariato e di inserimento nella comunità locale.

di Jacopo Orlo

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