Valerio Varesi: “Moribonda la carta dei giornali ma affezionati a quella dei libri”

NUOVI MEDIA, CRISI, SCELTE STILISTICHE: IL DIFFICILE PASSAGGIO AL GIORNALISMO 2.0 VISTO DA UN PROFESSIONISTA DELL'INFORMAZIONE

images2 Professione giornalista: tecniche e regole di un mestiere che sta attraversando un vertiginoso periodo di crisi. L’introduzione di numerose tecnologie, a cortissima shelf life, rendono la notizia più fluida, scivolosa, quasi ineffabile. Ma quali sono i punti fermi sui quali non si tratta? E la deontologia, da sempre il vero vangelo di questa professione così ambita, che fine ha fatto? Valerio Varesi, classe 1959, parmigiano, una laurea in filosofia e una stimata carriera come giornalista a La Stampa prima e a La Repubblica poi, scrittore di noir e vincitore di premi prestigiosi come il Lama e Trama (nel 2009 alla carriera) ha cominciato la sua attività nel 1985 e ha di conseguenza attraversato, a piedi, tutto il periodo di crisi del giornalismo come una sorta di picaro dell’informazione: ma né è uscito con successo e soprattutto con le idee molto chiare.

Qual è il tuo modello di riferimento?

“Il mio riferimento principale, che mi ha sempre ispirato, è Giorgio Bocca. Sono sempre rimasto colpito dalla lucidità con cui ha raccontato il presente prendendo spunto da una profonda coscienza e conoscenza della storia. Da un punto di vista stilistico aveva la capacità incredibile di raccontare in un modo lineare e semplice andando al cuore delle cose.”

Che tipo di giornalismo prediligi: il modello anglosassone, quello che separa nettamente notizia e opinione, o mediterraneo, che invece tende a confonderli?

“Quando si parla di modello di giornalismo anglosassone, bisogna tenere ben presente di cosa si sta parlando. È vero che questo modello separa correttamente fatti e opinioni ma è anche quel modello che propone giornali come il Daily Mirror che utilizza tecniche discutibili per vendere più copie, come ricorrere a campagne populiste. Se parliamo di questo modello personalmente faccio riferimento a testate più blasonate come il Times, sicuramente, o The Guardian o anche The Indipendent. Meglio specificare. Al di là di questo, secondo me, è sempre opportuno separare fatti e opinioni. Ovviamente l’obiettività è una chimera. Inevitabilmente c’è sempre un residuo della posizione del giornalista, questo è chiaro; però bisogna sempre raccontare il più possibile e obiettivamente quello che si vede. Poi c’è l’altra parte, quella dell’editorialista o del direttore che esprime la sua opinione o la linea del giornale: fase fondamentale di onestà e trasparenza nei confronti del lettore che deve sapere quel giornale da che parte sta.”


L’oggettività storica è un mito?

“Regola fondamentale, quando si riporta un fatto, è quella di sentire e riportare correttamente tutte le versioni contrastanti di quello che è accaduto. Questo può essere un buon metodo per avvicinarsi il più possibile all’oggettività e lasciare al lettore la possibilità di decidere chi ha ragione. È comunque inevitabile che ci sia sempre una partecipazione da parte di chi scrive. Se non altro, bisogna anche tener presente che la linea del giornale, in qualche modo, condiziona il cronista. Facciamo un esempio. Se scrivo per Il Manifesto e devo raccontare una manifestazione contro l’accoglienza agli immigrati, è inevitabile che, in fase di cronaca, nascano delle resistenze che mi portino a privilegiare una posizione rispetto a un’altra. Resistenze che possono anche essere dettate dalla cosiddetta ‘linea del giornale’ e che condizionano, o possono farlo, fortemente la stesura del tipo di cronaca. Questo è normale. Magari un altro giornale che ha una posizione completamente diversa, come ad esempio Libero, fa il contrario. Se è vero che alla fine la linea del giornale la esprime l’editorialista o chi per lui è anche vero che è naturalmente difficile che un cronista riesca a rimanere totalmente asettico in fase di cronaca. Il Corriere, durante il periodo della prima Repubblica, non si capiva bene da che parte stava a causa del suo tentativo di stare più o meno col Governo. Personalmente non preferisco questo tipo di testata, da parte mia scelgo quelle che prendono posizione e hanno una linea netta, profilata ma non rinunciano alla tensione verso l’obiettività.”


Giornalismo ed editoria: chi dei due sta peggio?

“Sicuramente il giornalismo perché si trova in una fase di passaggio difficilissima. Da una parte c’è la caduta vertiginosa del cartaceo sulla quale ormai gli editori non investono più. I settimanali sono morti quando i quotidiani hanno cominciato a fare le pagine monografiche. Adesso anche questi sono surclassati da quella marea di informazioni che passa anche attraverso loro stessi e mi riferisco alle versioni on line; ma faccio riferimento anche a quella marea incontrollata di informazioni che passa attraverso i social. La carta è moribonda, reggerà ancora ma deve cambiar pelle. Poi c’è il dramma del giornalismo on line che non ha preso quota. La gente s’informa ancora rivolgendosi alla televisione ma anche qui si manifestano i segni della crisi perché comunque, a prescindere dal controllo e dalla qualità, la televisione è per forza di cose meno veloce del web. Quando una testata televisiva lancia una notizia questa era già presente sui social da parecchie ore.”


imagesEbook e on line sono spesso sinonimo di gratis. Secondo te allora il digitale è nemico dell’informazione?

“Per quanto riguarda quest’argomento credo che il focus del problema sia il fatto che on line cambia la tipologia di lettore. Generalmente in edicola facciamo una scelta di congenialità cioè compriamo un cartaceo che più si avvicina alle nostre convinzioni e poi ne leggiamo il contenuto che è fatto di articoli approfonditi. On line il discorso cambia. Il lettore è un tipo diverso. Si tratta di una persona che fluttua nel web e con pochi click può leggere numerose testate dalle quali però attinge solo poche righe per notizia perché, sappiamo, il giornalismo on line è fatto così. Ma soprattutto è un lettore che si sofferma sulle immagini riportate sottoforma di foto gallery e video. I siti più frequentati sono proprio quelli che abbondano di questi media. È chiaro che cambia radicalmente la natura del lettore e finché i siti saranno gratis, cioè permetteranno gratuitamente l’accesso a questo tipo di contenuti, ciò cannibalizzerà la carta.  I giornalisti di oggi devono andare in giro con tablet e telefonini, pronti a filmare e fotografare per cogliere e riportare soprattutto il lato iconico dell’informazione che ormai è centrale sul mercato dell’ informazione. Devono avere un’idea del giornale che non è più solo quello cartaceo.
Per quanto riguarda l’ebook anche qui ci troviamo di fronte a una situazione difficile. I numeri ci dicono che il mercato di queste nuove teconologie di divulgazione culturale non decollano. Non c’è niente da fare noi siamo ancora legati al libro come oggetto prezioso da scegliere, da sfogliare, da annusare. Negli USA, dove questo mercato sembrava prendere piede, è in questo momento in forte ribasso. Lo aveva anticipato anche Umberto Eco: un libro è fatto di materialità, è un manufatto a cui è difficile rinunciare.”

Quando scrivi i tuoi pezzi, visto che sei anche un affermato narratore, oltre a riportare i fatti, tendi anche ad atteggiare retoricamente il tuo discorso per accattivarti l’attenzione dei lettori?

“Ogni pezzo si scrive secondo regole precise che nessuno può pensare di trasgredire, come quella di inserire nelle prime righe del pezzo il contenuto economico del fatto che si vuole raccontare: le famose cinque w . Questa è una regola dalla quale nessuno può prescindere. È chiaro però che se chi scrive ha un certo talento e il pezzo si presta a questo,  può ricorrere alle tecniche di narrativa. Io stesso lo faccio; quando questo è possibile introduco qualche elemento retorico che abbellisce il testo; banalmente cerco di scriverlo bene o comunque di renderlo riconoscibile, di dare dei segnali di stile a chi legge per cui sa che legge me e non un altro. È chiaro, però che c’è sempre il vincolo/ostacolo di dover sempre raccontare le cose come stanno: la narrativa è libertà assoluta, il giornalista informa, il narratore deforma.”

Qual è la notizia che ti ha colpito di più?

“Lo scoop più clamoroso fu quando scrissi di una storia piuttosto singolare. Un conoscente mi soffiò la notizia di una coppia eterosessuale in cui lui, Alessandro Bernaroli, a un certo punto della sua vita decide di cambiare sesso e diventare Alessandra Bernaroli. La sensazionalità della cosa stava nel fatto che si trattava di una coppia regolarmente sposata, secondo tutti i crismi della nostra società civile, che si pone, all’improvviso, al centro di una discussione in cui i punti principali erano i diritti delle coppie gay. Mi procurai in qualche modo il numero di telefono di Alessandra e la contattai; non fu difficile. Mi raccontò tutto: della sua relazione con la sua attuale moglie – sono ancora felicemente spostati nonostante un tentativo di sciogliere d’ufficio il loro matrimonio che la Corte Costituzionale ha bloccato a seguito di un ricorso -, del loro disagio, del loro dolore, delle loro lotte e del loro amore incondizionato. La notizia fece scalpore e andò sulle prime pagine di tutti i giornali. Il servizio, invece, che mi ha colpito di più è stato il mio viaggio a Marzabotto. Ricordo che un sopravvissuto alla strage mi portò con sé facendomi fare tutto il gito della collina a piedi nei luoghi dove avvennero gli eccidi; mi dedicò molto tempo raccontandomi nei particolari quello che era successo. Scrissi un pezzo che occupò una pagina di giornale. Quel giro sui luoghi dei fatti di Marzabotto mi ha profondamente colpito e mi rimarrà per sempre impresso nella memoria.”

 

di Michele Panariello

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