Pizza napoletana patrimonio Unesco? “Necessario per difenderci”

ARRIVA IL SI': STORIA DI UN PRODOTTO 'EMIGRATO'

pizzau“Pizza, mafia, mandolino”. Probabilmente la frase più pronunciata all’estero per definire l’Italia e gli italiani. E’ sicuramente un trinomio semplicistico e limitato, saturo di stereotipi, che comunque, nel suo intento di deridere, finisce per identificare l’Italia con uno dei prodotti più emblematici e apprezzati del Bel Paese de ‘a Pizza‘, per usare un’espressione altrettanto stereotipata.
Tanti sono stati i tentativi di imitazione della ricetta tradizionale ed è per questo che necessita di essere tutelata affinché possa rimanere, nella sua squisitezza, autentica. Se si vuole parlare di pizza non si può non affiancarla all’aggettivo ‘napoletana‘, che la lega alla sua origine, e che è già stata riconosciuta come Specialità Tradizionale Garantita. Un marchio che ne definisce la modalità di produzione ma non uno strumento abbastanza efficace per tutelare la sua identità partenopea, specialemente oltreoceano. Esempio lampante è la Pizza New York Style che si adatta a gusto e stile di vita statunitense ma nulla ha a che vedere con la nostra margherita. Oltre al valore culturale, il Made in Italy rischia di subire anche ingenti danni economici a causa dell’ ‘Italian Sounding‘, ovvero la contraffazione di prodotti alimentari italiani malamente copiati. Al fine di limitare questo fenomeno, che produce un danno di 60 miliardi, e valorizzare storia e identità del prodotto, è stata quindi proposta la candidatura de ‘L’Arte tradizionale dei pizzaiuoli napoletani’ nella lista dei patrimoni immateriali dell’Umanità dell’Unesco. Il 4 marzo la candidatura è stata approvata all’unanimità dal Consiglio Direttivo, mentre sul web la petizione lanciata su change.org da Alfonso Scanio Pecoraro, ex ministro dell’agricoltura, ha già raggiunto un milione di firme.

PER STORIA E SAPORE – A far propendere l’Unesco per il sì sono tradizione e caratteristiche di un prodotto tanto imitato quanto unico. La storia della pizza napoletana è una storia di oltre 300 anni, protagonista in testi di gastronomia napoletana e nelle botteghe che già allora venivano chiamate “pizzerie”. Ferdinando di Borbone, re di Napoli, nel XVIII secolo le fece diventare luoghi di tendenza, entrando in una di esse per assaggiare il prodotto, rompendo così gli schemi della rigidità di corte. Anno degno di nota è il 1889 che segnò, a quanto si dice, la nascita della Pizza Margherita prodotta appositamente per la regina d’Italia in visita a Napoli; leggenda narra che i colori di pomodoro, mozzarella e basilico rappresentino proprio il tricolore. È da metà ‘900 che la pizza ha visto una grande diffusione al di fuori dei confini napoletani e italiani grazie anche all’emigrazione.
Farina di grano tenero, lievito, acqua, pomodoro, sale e olio d’oliva sono le basi per la sua preparazione. Si può aggiungere aglio e mozzarella ma il vero segreto sta nell’ ‘arte’ della preparazione: impasto, lievitazione, formatura, farcitura e cottura sono i cinque step che necessitano ognuno di attenzione ed esperienza per creare poi un prodotto tondeggiante, morbido, elastico con un ‘cornicione’ (o più comunemente crosta) rialzato, di colore dorato. Il gusto è caratteristico: acido del pomodoro e sapido del cornicione si amalgamano in un aroma equilibrato. Non trascurabile è il suo odore profumato e fragrante.

pizzau1UN PASSO NECESSARIO – Candidare la ‘napoletanità’ all’Unesco pare un’idea apprezzata dagli addetti ai lavori. Rosario, pizzaiolo napoletano del famoso franchising ‘Rossopomodoro’, racconta: “Candidare la pizza all’Unesco è necessario per dare la garanzia del pizzaiolo napoletano. La candidatura non tutela al 100% solo ed esclusivamente la pizza ma il lavoro dell’artigiano”. Artigianalità a rischio estinzione: “Come diceva mio padre, la colpa è stata dei napoletani: i pizzaioli di Napoli i si spostavano al nord perché era più facile per loro trovare lavoro nelle pizzerie, ma una volta lasciato il posto i titolari hanno rimpiazzato la figura del pizzaiolo con persone di origini non napoletane: è cosi che la pizza si è imbastardita. Tutto ciò ha portato al cambiamento di alcuni fattori, principalmente nella cottura: seppur usassero il forno a legna hanno reso la pizza un prodotto diverso”.
Non sempre, però, la napoletanità è un ‘di più’. Al ristorante-pizzeria ‘Don Alfonso’, il cameriere Antonio spiega: “E’ necessario interpretare la clientela, abbiamo deciso di non fare la pizza napoletana per adattarci al gusto dei parmigiani che preferiscono una pizza più sottile e croccante, anche se alcuni ingredienti mantengono le origini meridionali, come il pomodoro. Se un cliente ci chiede una pizza napoletana ovviamente saremo contenti di farla”.
La testimonianza di Giuseppe Giordano, pizzaiolo e guru della pizzeria ‘Tramonti’, che prende il nome da un paesino arroccato sui monti Lattari, conferma le parole di Rosario: la pizza che si può mangiare oggi al nord è frutto di una cottura diversa. “La pizza napoletana – spiega -è famosa per essere soffice e leggermente bruciacchiata perché viene cotta a 500° per un minuto. La scuola di Tramonti, che è iniziata nel 1953, ha fatto conoscere la cottura della costiera amalfitana: 350° per quattro o cinque minuti.” La tradizione di Tramonti è stata fondamentale per far conoscere la pizza al nord Italia: “La storia della nostra pizza si unisce con quella della classica napoletana, con la mozzarella, che noi abbiamo inserito, a fare da il filo conduttore.” Alla domanda come vede la candidatura de L’arte dei pizzaiuoli napoletani all’Unesco, Giuseppe Giordano risponde: “Noi l’abbiamo appoggiata perché, comunque sia, si parla di pizza e oggi la parola pizza è troppo generica, il nostro dargli un appoggio è appunto perché noi, insieme ai napoletani, siamo i più originali.”

di Mattia Gandini e Vincenzo Alessandro

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