Vinicio Capossela: “Ebbro fino agli occhi e vuoto dentro al cuore vi racconterò la mia Odissea”
IL CANTAUTORE COMMENTA IN ESCLUSIVA IL SUO ULTIMO SPETTACOLO DEDICATO A VERDI
Finalmente. Un suono simile a un campanello avvisa il pubblico che lo spettacolo di un giovedì di Festival Verdi sta per iniziare, le luci del Teatro Farnese cominciano lentamente a spegnersi. Il cuore sussulta davanti alla bellezza degli anni passati; via i telefoni, via la realtà. Entra il coro, entra Vinicio Capossela: tutti pronti a perdersi in quest’Odissea sua e un po’ di tutti. “Conservare la meraviglia è il nostro più grande premio”.
Nel suo spettacolo lei parla della sua vita come di un viaggio; quale episodio ha rappresentato le colonne d’Ercole intese come limite da superare? Ad oggi crede di averle superate?
“L’idea era quella di raccontare un’Odissea musicale, in forma di canzoni; spiegare che le mie canzoni hanno iniziato a nascere intorno a una corale lirica o a un pianoforte insieme alla mia giovane compagna. Nel mio disco ‘Marinai, profeti e balene’ racconto la volontà di Ulisse di andare oltre la conoscenza. Per me è stato così: volermi avventurare in un terreno in cui la musica cambia strutture e diventa racconto musicale. Un terreno sconosciuto che cambia la forma delle cose.”
“Adesso vi racconterò la mia piccola Odissea, accompagnato da un coro verdiano anziché da un coro greco”, annuncia infatti sul palcoscenico. Ed ecco che prepotentemente entra in scena il tema dell’amore: quello giovanile, quello totalizzante, quello che è motore di tutto.
Il canto delle sirene che ammalia il peregrinare dell’uomo, è stato per lei freno e distrazione oppure in un certo senso l’ha aiutata a trovare la strada?
“L’episodio omerico che mi ha conquistato di più è l’idea di queste sirene che non ti seducono con la loro voce ma con le voci del passato, quelle di chi non c’è più. Un senso di nostalgia che diventa superamento della separazione e ricongiungimento con chi abbiamo perduto, con chi non siamo più. Il rischio però è cedere alla tentazione del passato e perdere di vista il futuro.”
Un passato che per Vinicio Capossela passa dai Blue Valentine, il nome del primo duo fondato dal cantante insieme ad una ragazza di cui s’era innamorato qui a Parma, durante gli anni dell’università. Arriva poi il momento di brindare col pubblico “ai giorni delle poesie, delle rose, delle prose”, sempre nel segno di Parma e di Giuseppe Verdi con il coro che intona “libiamo ne’ lieti calici”: la festa può cominciare.
Ha definito la piazza del Duomo di Milano, come la piazza dei non cittadini ma degli ospiti. E con la città di Parma, invece? Avendo vissuto qui per un po’, ad oggi, si sente un ospite o si considera parte della città?
“Il mio rapporto con la città di Parma è legato soprattutto al parco Ducale perché quando sei uno studente fuorisede, la strada che va dalla stazione a via Kennedy passa per questo parco. E’ bellissimo ma è anche intriso di una sensazione di solitudine che lì dentro si amplifica. Quando hai vent’anni e magari sei innamorato, sei in un momento della vita in cui il futuro sembra pesarti addosso, non sei tanto libero di agire perché hai paura che ogni passo sbagliato comporti conseguenze più grandi di te.”
Finchè, per raccontare quel peso e quell’amore “non ebbi più bisogno di cercare le parole nelle canzoni d’altri”, dice Capossela sul palco. A quel punto bastavano le sue, da buttar giù tra i tasti di un pianoforte.
Lei si è definito un ‘carbonaro che lotta per il suo risorgimento personale’. E’ da intendersi come rinascita dell’uomo o dell’artista?
“La storia che ho cercato di raccontare è la storia dei miei primi passi, non solo nella musica ma anche quei passi che mi hanno permesso di superare i primi dolori, le prime separazioni giovanili. Quando finisce un amore ad esempio non perdi solo una storia ma anche te stesso in un certo senso o meglio chi eri fino ad allora. E allora bisogna rinnovarsi e risorgere. Dopo un dolore bisogna rialzarsi e mi piaceva questa analogia col risorgimento verdiano. Inoltre, Enrico Lazzarini, il contrabbassista con me sul palco, si è sempre definito un carbonaro, tanto da scriverne un libro ed è stato il primo compagno che ho incontrato lungo la strada della vita.”
“Questa sera non mi basta il mondo”, canta, “tornano i miei passi in coro”; e proprio il coro sempre presente sulla scena intona allora ‘la zingarella’ del Trovatore verdiano. Parole, musica e danza diventano un tutt’uno, così come nel tempo dei gitani.
Durante la sua carriera si è dimostrato artista poliedrico: cantante, poeta e scrittore. Qual è il filo conduttore che lega queste diverse forme d’arte? E ad oggi in quale si sente più a suo agio?
“In realtà credo che a cambiare sia solo la forma, la sostanza è la stessa a prescindere da come venga espressa. La parola è l’essenza di tutto, Itaca è la lingua che abitiamo, “in principio fu il Verbo”. È dalla parola che nasce tutto. Io sono un’artista della parola, che sia scritta, declamata, cantata, interpretata. Questo lo insegna bene l’opera: non c’è soltanto l’aria, c’è la recitazione e la messa in scena che lascia abbagliati. Alla fine il mio è un lavoro melodrammatico in cui sono scenografo, costumista, regista. La mia arte del melodramma è un po’ un riassunto di tante arti.”
Tra le candidature per il premio Tenco di quest’anno, insieme a lei ci sono molti artisti del panorama indie italiano. Che direzione sta prendendo secondo lei la musica italiana, soprattutto tra i cantautori di nuova generazione?
“Io ascolto la filodiffusione, quindi sono poco informato sul panorama moderno. Sicuramente la forma canzone si sta evolvendo dalla canzone d’autore, anche il Rap ormai lo è, in un certo senso. Ha detto Paolo Conte “Come una lucertola è il riassunto di un coccodrillo, così il tango è il riassunto di una vita”, ma potremmo sostituire il ‘tango’ con la canzone. Ci sono autori che costituiscono già una nuova scena ma non credo ci sia nulla di organico, sono fenomeni abbastanza individuali. Tra i nuovi, conosco Colapesce che è bravissimo. Se vogliamo fare un parallelismo con Verdi, questo spettacolo mi ha avvicinato ad un universo che conoscevo poco, ed ho capito che l’opera riesce a non essere più solo legata a storie personali: dentro ci sono il destino, la storia, la vicenda umana.”
Ed è proprio un’opera, il Rigoletto, intonata dal coro, a lasciare intendere che la vita a volte ci tratta come giullari di corte. Non resta che osservare e cercare di capire quale sia il proprio ruolo.
Lei ha detto che il destino è come una balena: “Lo si può leggere solo dalla coda”. In questo scenario si sente più come il capitano Achab che l’insegue e gli dà la caccia, o Giona che ne viene inghiottito?
“La storia di Giona è interessante, viene inghiottito ma resuscita ed è deposto al sole e questa esperienza ne fa un uomo nuovo, quindi a volte forse è necessario essere inghiottiti dal proprio destino per potersi rinnovare. Mi viene da pensare anche all’inizio del romanzo ‘I fratelli Karamazov’, in cui si dice che ‘il frutto per poter dare il seme deve morire’. Ed è così: è necessario morire molte volte per poter portare a compimento un destino in cui invece si muore una volta sola e incomprensibilmente. Quello che è certo è che per vivere bisogna rinnovarsi e risorgere molte volte. Io mi rivedo in Giona perché la sua è un’esperienza di disobbedienza, lui è come un clandestino che evade dall’ordine per poi essere riacciuffato. Anche Achab è interessante però, lui come Ulisse va oltre il proprio ritorno. Un mio amico dice che è il ritorno a dare senso al viaggio, altri invece dicono che il viaggio ha senso solo se non si torna mai. Credo che ognuno possa ricavarne il senso che crede.”
Un po’ come il suo spettacolo,dove sorrisi e malinconia si confondo come gocce di pioggia nel mare. Ma quello scrosciare non è altro che l’applauso della città che ha visto crescere e tornare a casa il suo Ulisse.
di Fiorella Di Cillo, Francesca Iannello
foto di Roberto Ricci
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