Jacopo e Federico: amici, coinquilini e… Zebre

TRA PALLA OVALE, CUCINA E PLAYSTATION: I DUE GIOVANI COMPAGNI DI SQUADRA SI RACCONTANO

Alti quasi due metri, spalle larghe e bicipiti scolpiti, Jacopo Sarto e Federico Ruzza giocano in terza e seconda fascia. Sono amici, coinquilini e compagni di squadra, non frequentano l’università e si allenano quasi tutti i giorni. “Il nostro fisioterapista ha detto che dovremmo studiare qualcosa che ci piacerebbe leggere durante i viaggi in pullman per le trasferte”, dicono, “ma il tempo è poco e forse non sappiamo neanche bene cosa ci piacerebbe fare.” Giocano insieme nelle Zebresquadra di rugby impegnata nel campionato interfederale Pro12. Entrambi sono appassionati di Star Wars, Jacopo anche di cucina. Ma quanto è impegnativa una vita che ruota intorno allo sport? Ecco il loro racconto. 

A che età avete iniziato a giocare a rugby?

“Io ho iniziato a 8 anni – comincia Jacopo -, mia madre lavorava in banca e molti suoi colleghi erano ex giocatori di rugby, non esisteva il professionismo. Praticavo già nuoto come sport, ma essendoci a Padova una grande tradizione di rugby, ho deciso di tentare. C’è da dire che a quell’età è facile restare conquistati da uno sport che ti permette di rotolarti nel fango e stare con gli amici: fondamentalmente è divertente.” Federico invece racconta: “Un mio compagno di classe delle scuole elementari giocava a rugby e mi ha convinto ad andare con lui ad un allenamento. Quel giorno non ci ho capito nulla dello sport, ma ne sono rimasto affascinato e da quel momento ho iniziato a giocare perché, semplicemente, mi piaceva.”

Avete quindi iniziato la vostra carriera a Padova. Come siete arrivati a Parma?

Federico Ruzza“Io fino ai sedici-diciassette anni ho giocato a Padova – risponde Federico -. Qui a Parma poi c’è la famosa Accademia Nazionale Ivan Francescato che seleziona una trentina di giocatori all’anno. Da lì, dopo un anno, sono andato a giocare a Viadana e poi mi hanno chiamato alle Zebre. E’ il secondo anno per me qui, mentre per Jacopo è il terzo.”

Il rapporto che si crea tra compagni di squadra è più simile ad un rapporto tra amici o tra colleghi? E con l’allenatore invece?

“Come in tutte le squadre – confessa Jacopo – alla fine ci si divide un po’ in gruppi. Ad esempio capita spesso che gli stranieri facciano gruppo a parte. Poi, avendo età molto diverse, alcuni hanno impegni più seri, come una famiglia, mentre noi che siamo più giovani passiamo spesso anche il tempo libero insieme. Quando ne abbiamo ci capita di organizzare pranzi, cene, tornei alla Play Station e stare in compagnia. Nel caso specifico io e Federico siamo anche coinquilini, oltre che compagni di squadra e amici. Alla fine diventa quasi una famiglia.” “Il rapporto con l’allenatore – dice invece Federico – è più come quello tra professori e alunni: lui decide, la squadra fa. Poi ovviamente ci sono alcuni nostri compagni più grandi, e quindi più esperti, che hanno con lui un dialogo più diretto.”

Come vi preparate per affrontare una partita? Ogni quanto vi allenate?

“Di solito giochiamo il sabato. Più o meno funziona così – spiega Federico -: ci si allena di lunedì, o al mattino o al pomeriggio, comunque una volta al giorno tra campo e palestra, idem il martedì. Mercoledì invece è il giorno libero, si fanno riposare i muscoli o ci si dedica ai massaggi. Il giovedì inizia la preparazione della strategia contro la squadra che affronteremo il sabato; il venerdì si fa una corsetta al campo tutti insieme. Ci alleniamo quindi tutti i giorni e la domenica riposiamo.”

Jacopo SartoNelle Zebre ci sono giocatori che fanno parte anche della nazionale italiana: l’allenamento che seguono è diverso dal vostro? In qualche modo la cosa vi influenza?

“Quando gioca la nazionale il nostro campionato è sospeso, ad esempio di recente ci siamo fermati per due settimane. Di solito però facciamo le stesse cose” dice Federico, mentre Jacopo aggiunge: “Seguiamo molto le partite della nazionale, a volte direttamente al campo. Di recente l’Italia ha vinto una storica partita contro il Sudafrica, questa vittoria ci voleva proprio.”

A guardare una partita di rugby, somiglia molto ad un incontro di lotta libera. Eppure ci sono delle regole molto precise da rispettare. Vi è mai capitato di subire lesioni durante una partita? In quanto tempo si recupera?

Il rugby è uno sport di lotta in fondo, visto che si basa sul contatto fisico – risponde Jacopo -, però è assolutamente regolamentato. Negli ultimi tempi stanno cercando in tutti i modi di tutelare ulteriormente gli atleti per evitare il ‘gioco sporco’. Chi gioca ha un fisico molto robusto e farsi male è sempre più probabile, da qui la necessità di renderlo il più sicuro possibile. Io mi sono infortunato più di una volta. Mi sono fatto male allo scafoide, lussato l’acromion di primo e secondo grado, fratturato la clavicola e una serie di altri traumi alle caviglie. Per recuperare lo scafoide c’ho messo un bel po’, per il resto dipende molto dalla gravità: si può andare da una settimana di stop fino a tre o quattro mesi.”

Qual è la vittoria che ricordate con più emozione e quale la delusione più grande?

“Sicuramente le due vittorie contro il Treviso, lo scorso anno, sono state particolarmente belle. Per quanto riguarda le sconfitte – dice Jacopo – il bello di questo sport è che, a differenza di altri individuali, come l’atletica, non passa troppo tempo tra una partita e l’altra e quindi devi risalire subito in sella perché dopo cinque o sei giorni si torna in campo. Le delusioni le affrontiamo insieme, poi iniziamo subito a pensare alla partita successiva per prepararci al meglio.” Federico, che contro il Treviso non c’era, ricorda invece la vittoria “nello storico stadio di Edimburgo, una delle poche in trasferta. Poi ricordo la vittoria contro l’Irlanda con la nazionale under 18, molto bella. In realtà ogni vittoria è preziosa.”

Cosa si potrebbe fare secondo voi per aumentare il seguito del rugby?

Secondo Federico “vincere sicuramente aiuta, ma scherzi a parte, a differenza di sport come il calcio, non si investono molti soldi nel rugby. E questo è un po’ un problema. Dopodiché i risultati sono molto importanti per aumentare la visibilità, e quindi lo è vincere, come ha fatto la nazionale contro il Sudafrica.” Per Jacopo “la situazione è già molto cambiata da quando eravamo piccoli rispetto ad oggi. Quando abbiamo iniziato quasi nessuno sapeva cosa fosse il rugby e ancora oggi molti lo associano al football americano, ma non è la stessa cosa. Il numero di persone appassionate è cresciuto molto, ma serve sicuramente tempo e qualche vittoria in più.”

Si può vivere di solo rugby? Cosa pensate di fare in futuro?

“Se dovessi fare qualcosa a parte lo sport, sicuramente mi dedicherei alla cucina, ma devo ancora capire bene quale sia il mio obiettivo dopo il rugby” dice Jacopo, mentre secondo Federico “sicuramente arrivare a giocare in nazionale non sarebbe male. Il rugby non ti dà da vivere tutta la vita quindi dobbiamo trovare delle soluzioni future. E anche se in questo momento le mie idee non sono molto chiare, immagino che troveremo qualcosa.”

di Fiorella Di Cillo, Felicia Vinciguerra

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