Prospettive di un mestiere che si evolve: a lezione di fotogiornalismo
ESPERIENZE INTERNAZIONALI PER UN WORKSHOP LUNGO DUE GIORNI
La crisi della carta stampata, l’avvento dei social media, il dilettantismo che si fa professione. Quali sono, in questo contesto, le prospettive del fotogiornalismo? Parte da questa riflessione il workshop intitolato ‘Il fotogiornalismo ai tempi di Instagram’ organizzato da Parmateneo e Capas (Centro per le Attività e le Professioni delle Arti e dello Spettacolo). Due giorni di incontri e dibattiti che hanno visto gli studenti dell’Ateneo confrontarsi con professionisti di diversi settori come Marco Gualazzini, Giorgio Lotti, Stefano Cattini e Roberto Ricci.
REPORTER A CONFRONTO – Uno sguardo tra passato e presente del fotogiornalismo: il tema che ha caratterizzato la prima giornata di lavori. Ospiti dei primi due incontri Marco Gualazzini, fotografo di Parma appena quarantenne ma con alle spalle già tante esperienze per i maggiori magazine internazionali, e Giorgio Lotti, classe’37 e nome di spicco di Epoca e Panorama. Due generazioni lontane, con visioni e approcci diversi al mestiere del fotografo, ma con qualche tratto in comune.
Congo, Mali, Haiti, Somalia sono solo alcune delle tappe del lavoro di Gualazzini, che lo ha portato dalla Gazzetta di Parma alle recenti collaborazioni con il New York Times e i gruppi L’Espresso e Rcs, passando per pubblicazioni su Internazionale, CNN, M (Le Monde), Der Spiegel, Paris Match, TIME magazine.
“Tra Gazzetta e New York Times c’è meno differenza di quello che si possa credere”, dice lui, ma per gli aspiranti giornalisti in aula le perplessità sono tante: come scegliere la storia da raccontare, ad esempio? “La strada giusta – spiega Gualazzini – è quella di concentrarsi su poche storie, ma andare a fondo, sviscerarle. Bisogna tornare in un luogo più volte, finché non si ha ben chiara la realtà che si vuole raccontare. Alcune scelte nella mia vita lavorativa mi sono capitate quasi per caso. Io ho sempre avuto la fissa della Somalia, ma non avevo mai trovato i contatti giusti per andarci. Un giorno mi trovavo in un’ambasciata in Pakistan. Ero li per girare un documentario Rai. Mentre parlavo al telefono con il regista un uomo si avvicinò e mi chiese: ‘Sei italiano? Fammi fare un po’ di pratica con la lingua’. Era un delegato del governo transitorio somalo. Parlammo un po’, gli raccontai del mio interesse per la Somalia e mi disse ‘Ho la persona che fa per te’. Grazie a questo incontro fortuito nel 2012 ho fatto il mio primo viaggio a Mogadiscio”
Ma una volta scelta la destinazione, come si finanzia il viaggio? E quali sono le maggiori difficoltà? “Nei primi viaggi – continua Gualazzini – spesso bisogna autofinanziarsi, poi proporre dei progetti alle varie testate, sperando siano interessate a investire. Oggi anche il crowdfunding può essere utile. Una volta partiti ci sono difficoltà con i trasporti, con il cibo. In Africa poi non puoi mimetizzarti, sei bianco e devi imparare a muoverti con cautela. Per questo diventa fondamentale avere un fixer affidabile, che ti faccia da guida, da interprete e organizzi gli spostamenti.”
Lotti traccia, con i suoi aneddoti, l’immagine di un fotogiornalismo che non c’è più: “La redazione era un teamwork, in cui tutti collaboravano senza invidie.” Con il suo obbiettivo ha raccontato l’alluvione di Firenze del ’66, il terremoto in Irpinia, e immortalato politici, artisti, capi di stato. Per fare questo mestiere, racconta, serve una grande preparazione culturale e tecnica: “La differenza tra un cattivo fotografo e un buon fotografo sta in un dettaglio: il primo guarda un soggetto, il secondo lo legge.
Non possiamo fotografare le persone senza conoscere il loro modo di pensare, di vivere. Prima di scattare bisogna essere ben consapevoli di tutti questi aspetti.” Spesso però è indispensabile una buona dose di fortuna: “Quando andai a fotografare Zhou Enlai (capo di governo della Repubblica Popolare Cinese, ndr) sapevo che avrei avuto a disposizione un solo scatto. Volevo ritrarre il suo profilo sinistro, che in Cina è simbolo di nobiltà. Giunto davanti a lui, non sapevo come presentargli la mia richiesta, ma proprio in quel momento un assistente gli comunicò che lo attendevano in sala. Lui si voltò per ascoltare, io scattai. La foto è diventata il suo ritratto ufficiale!”
I due ospiti hanno un parere ben diverso sul futuro del fotogiornalismo. Gualazzini ricorda che “questo mestiere è stato dato per morto già tanto tempo fa. Certo, risente della crisi del giornalismo tradizionale, ma può essere il momento buono per trovare nuove strade da percorrere.” Per niente ottimista invece Lotti, che invita i giovani studenti a non svendere il proprio lavoro: “Oggi siamo pieni di orribili, belle foto. State regalando i vostri contenuti, nella speranza che qualcuno vi chiami. Dovete ricominciare dal giornalismo fatto con la suola delle scarpe, perché questo Paese vi offre tante storie stupende da raccontare.”
NON SOLO GIORNALISMO – Nella seconda giornata del workshop spazio al documentario con Stefano Cattini, autore di lavori per tv e web. Non cambiano solo gli strumenti e le tecniche utilizzate ma anche il rapporto con la storia da raccontare. ” Il documentarista – dice Cattini – da più importanza alle relazioni tra i soggetti che all’aspetto estetico. Deve essere quasi invisibile, non condizionare il comportamento delle persone riprese. Uno dei miei primi documentari, ‘L’isola dei sordobimbi’, è girato all’interno di una scuola per bambini non udenti. Li ho filmati per un intero anno scolastico e ho deciso di fare a meno della troupe, cosi da rendere meno invasiva la mia presenza.” Anche in questo ambito trovare i finanziamenti non è facile: ” Quando si partecipa ai bandi Media o Rai, le possibilità di vincere sono limitate. Perciò ogni lavoro comporta una rischio economico. Nella scelta degli argomenti da raccontare bisogna quindi trovare un compromesso tra ciò che interessa l’autore e ciò che è finanziariamente sostenibile. Io cerco sempre di farmi guidare dalle mie passioni, non potrei raccontare una storia senza entrare in empatia con i suoi protagonisti. Questo è un aspetto fondamentale del mio lavoro. “
Chiude i lavori Roberto Ricci, dal 2001 fotografo del Teatro Regio di Parma. Con lui il centro del discorso si sposta sul rapporto tra foto e spettacolo, preparazione tecnica, capacità di cogliere il momento o la luce giusta: “La fotografia di spettacolo non è solo quella esteticamente o tecnicamente ben riuscita – spiega Ricci-. Ogni componente del teatro ha bisogno che io metta in evidenza degli aspetti diversi: alla sartoria ad esempio occorrono i dettagli dei costumi, i criteri dell’ufficio stampa sono legati all’attività di promozione degli eventi e cosi via.” Scattare in un ambiente come quello del Regio crea delle difficoltà notevoli: “Innanzitutto bisogna riuscire a lavorare con la luce a disposizione, senza poterla regolare in base alle esigenze. Un altro problema è quello di non disturbare chi va in scena: durante le opere teatrali ci sono dei momenti di silenzio in cui il rumore della macchina o il flash non sarebbero tollerabili. Bisogna essere molto discreti.”
Ma il lavoro di Ricci non si conclude una volta uscito dal Regio: “A casa scarico le foto, le seleziono, se necessario apporto qualche miglioria. Se lo spettacolo non è troppo lungo e sono fortunato, vado a letto intorno a mezzanotte. E’ un lavoro che assorbe molte ore della mia giornata, ma mi permette anche di entrare in contatto con personaggi straordinari.”
“ISTANTANEE” – Il workshop è stata anche l’occasione per presentare il primo concorso fotografico promosso dal Capas e rivolto a tutti gli studenti dell’Ateneo. “L’intento – spiega il professor Luigi Allegri, responsabile dell’iniziativa – è quello di stimolare e incentivare la creatività degli studenti”. I partecipanti dovranno inviare tre fotografie entro la scadenza, fissata per il 17 gennaio, all’indirizzo mail del Capas capas@unipr.it. I migliori scatti avranno la possibilità di essere esposti in una mostra dedicata.
di Giovanni Zola
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