“Condividere il dolore”: il mestiere del giornalismo secondo Quirico

LA RESPONSABILITA' DELLA TESTIMONIANZA: L'INVIATO DI GUERRA SI CONFRONTA CON GLI STUDENTI DI PARMA

Quirico1Il giornalista arriva in giacca e cravatta, ma non sembra starci troppo comodo. Ha una corporatura esile, il viso scavato e un’espressione profonda, che parla di vita vissuta. Professionalmente cresciuto a La Stampa come corrispondente da Parigi e inviato di guerra in Africa e Medio Oriente, Domenico Quirico si è confrontato con gli studenti dell’Università di Parma sui temi del ‘Giornalismo testimonianza e giornalismo cabaret’ nell’incontro di giovedì 1° dicembre in Aula Magna, aperto dalla presidente del corso di Giornalismo e cultura editoriale Annamaria Cavalli e moderato dal docente e giornalista Maurizio Chierici.

‘CONDIVIDERE IL DOLORE E’ GIORNALISMO’ – Senza lasciar spazio a convenevoli, Quirico entra subito nel vivo dell’argomento: “Il giornalismo è gettarsi nel pozzo e cercare di portare indietro il maggior numero di esperienze possibili. Quando arrivo in un posto, non prendo mai appunti, ciò che ricordo è esattamente ciò che era necessario raccontare”. Inutile descrivere lo sgomento degli studenti che fin dalla prima lezione universitaria si sono sentiti ripetere innumerevoli volte di portarsi dietro carta e penna, e scrivere, scrivere, scrivere. Ma il giornalismo secondo Quirico è un’altra cosa: “Si può scrivere solo ciò che uno vive. Al di là dell’obbligo, è nella condivisione che esiste l’unica giustificazione della facoltà di scrivere. Il rapporto essenziale dev’essere tra me giornalista e il soggetto dei miei racconti, perché con loro ho un rapporto di lealtà: vivono in quanto io li racconto”. Ma qual è la vera sfida del giornalista contemporaneo? “Io sono convinto – spiega Quirico – che la sofferenza è la materia del raccontare. C’è una terribile solitudine nel dolore personale, ma allo stesso tempo questo unisce, fortifica, cancella odi e indifferenza. Mi ricordo ancora quando il reporter Steve McCurry, vedendo per strada una ragazza che era stata appena uccisa, raccontò: ‘Ho fatto due cose: ho scattato la foto per testimoniare. E poi mi misi a piangere’. Separare queste due cose – continua – non è un atto giornalistico, perché è esattamente in questo momento che si ha il passaggio dall’esperienza alla coscienza. Io devo commuovermi e suscitare nei miei lettori la stessa commozione”.

Quirico3LA SIRIA RACCONTATA DA DENTRO – Per chi conosce la storia di Quirico, è ancora forte l’immagine del suo ritorno a casa da Damasco nel 2013, dopo un rapimento lungo cinque mesi, nelle mani dei miliziani dello Stato Islamico. Ma l’inviato aveva già avuto un’esperienza simile nel 2011, in Libia, dov’era stato fatto ostaggio per 24 ore in una casa privata a Tripoli, insieme ad altri tre giornalisti italiani (Rosaspina, Sarcina, Monici). Tutto questo, però, non è bastato a fermare il reporter piemontese che due anni dopo è tornato in Siria, per vocazione. “La Siria è la mia vita – spiega -. Faccio fatica a distinguere le mie vicende personali da quello che succede lì”. Ma sul piano professionale, Quirico non si tira indietro dalle critiche: “La guerra in Siria è stata una gigantesca sconfitta del giornalismo. Nessuno – continua – è stato in quel Paese quanto ci sono stato io. Cosa hanno fatto i giornalisti per la Siria? Nulla. Dopo cinque anni di conflitto, migliaia e migliaia di morti, non siamo riusciti a mobilitare nemmeno un vicoletto. Qualcuno che dicesse: ‘Basta, non ci dev’essere più nemmeno un morto’. Non ci sono riuscito nemmeno io col mio lavoro, per questo sono responsabile tanto quanto voi”.

Quirico4Ma cosa succede realmente in Siria? “Quando sono stato rapito, ho subìto due finte esecuzioni. Anche se quando si sono verificate, non sembravano mica tanto finte. Mi hanno fatto inginocchiare, hanno caricato i kalashnikov e hanno iniziato a sparare a salve. E sono rimasti lì, a guardare il dolore dell’altro”. Quirico è stato il primo giornalista italiano a raccontare le milizie dell’Isis molto prima che finissero in prima pagina, quando le stesse testate giornalistiche sottovalutavano ancora il problema. “Quando sono tornato in redazione e ho spiegato che lì stavano preparando un nuovo califfato, che minacciavano di farsi esplodere in Occidente, sono stato preso per matto. Pensavano che il rapimento mi avesse fatto perdere la testa”. E invece Quirico sa bene com’è cambiata la situazione da quelle parti, così come ha raccontato nel suo ultimo libro ‘Il Grande Califfato’ (2015): “Le guerre ideologiche non esistono più. Prima gli stessi miliziani avevano interesse a raccontarsi. Oggi queste guerre sono portate avanti da mercenari, bande tribali, etniche o legate al fanatismo religioso, che non hanno nessun interesse nemmeno per il nostro giudizio. Ad Abu Bakr al-Baghdadi non gliene frega niente di quello che si racconta su di lui, noi restiamo il ‘mondo delle tenebre’, degli infedeli, e per questo andiamo eliminati”. 

Quirico5L’AFRICA E ‘LA BANALITA’ DEL BENE’ – Il ‘Continente nero’ è un’altra delle esperienze tanto affascinanti quanto “violente” di Quirico che quegli attimi li ricorda con lucida consapevolezza.”Nel 2011,  quando mi hanno preso i miliziani di Gheddafi – racconta – c’era con me una persona che si era offerta di farmi da autista per accompagnarmi a Tripoli, non perché l’avrei pagato, ma perché era mio amico. Io non sapevo nemmeno da dove venisse, poi ho scoperto che veniva da Zentan, dove stavano ‘quelli della montagna’, che poi hanno preso la città e fatto cadere Gheddafi. Appena i miliziani hanno visto che nei suoi documenti c’era scritto ‘Zentan’ gli hanno sparato, proprio accanto a me. Lui è caduto, l’hanno finito con altri colpi sulla strada e gli hanno dato fuoco. Allora – rivolgendosi agli studenti – voi mi chiedete che rapporto ho con le persone del posto, col loro dolore? E’ la responsabilità: quella persona è morta per causa mia, è inutile girarci attorno. Quella persona è morta perché io dovevo scrivere 150 righe sul giornale”. 

Questa responsabilità e senso di colpa accompagnano la vita di Quirico sin dall’inizio della sua esperienza in Africa e Medio Oriente, così come la volontà di non tener fuori dai suoi racconti i carnefici della Storia. “Io ho l’obbligo di raccontare anche gli assassini, non posso escluderli”. E si ferma a raccontare un aneddotto, più vicino a una lezione di vita che a una testimonianza: “Io ho dovuto convivere per cinque mesi con i miliziani dello Stato Islamico, i ‘cattivi’, la metà oscura della Storia. Loro mi volevano linciare, perché ero la materializzazione antropologica della loro disgrazia: l’occidentale. E invece da chi sono stato salvato? Da due ragazzi libici, gheddafiani, di una famiglia importante di quel quartiere. E non l’hanno fatto per soldi e nemmeno per motivi personali. La verità è che io sono vivo per quel frammento di bontà umana che c’era anche da quella parte, quella degli assassini. ‘La banalità del bene’, come scriverebbe Deaglio. Se poi vai a vedere, lì c’era gente che si era ritrovata in quella situazione per caso, per loro era stata quasi una scelta obbligata, che hanno portato avanti per una tremenda coerenza”.

IMG_1631L’APPELLO AGLI ASPIRANTI GIORNALISTI – “Sperimentate”: è il primo consiglio che il giornalista si sente di dare agli studenti presenti in aula. “Il giornalismo di oggi non graffia più, non incide più. Dobbiamo pensare un nuovo modo di scrivere ogni giorno e per farlo è necessario utilizzare varie tecniche narrative”. In che modo? “Se lo scopo del giornalista è di portare i lettori sul posto, far sentire loro materialmente ciò che succede, l’odore della terra, i rumori intorno, allora la scrittura dovrà essere veloce. Questo non si può fare con la scrittura tradizionale, e allora perché non provare con forme di scrittura continua, senza interpunzioni? La fugacità della scrittura giornalistica è una qualità intrinseca della stessa e questo un giornalista deve riconoscerlo. Deve sapere che ciò che scrive vivrà solamente 24 ore, perché il giorno dopo la realtà sarà già cambiata e dovrà quindi riprendere il suo lavoro daccapo. Ma è proprio questa la grande fascinazione: non cambierei con niente al mondo il rapporto con la fragilità del tempo degli uomini che ti insegna il giornalismo”.

 

di Francesca Matta

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