Chaimaa Fatihi: “Non chiediamo ai ragazzi di aderire a prototipi culturali”
FAMOSA DOPO UN POST SU FACEBOOK, E' LA VOCE DELLA NUOVA ITALIA CHE ARRIVA DA LONTANO
Arriva al luogo dell’incontro in leggero anticipo. Chaimaa Fatihi è l’ospite d’onore, una giovane ragazza musulmana di 24 anni, nata in Marocco ma cresciuta a Mantova. Frequenta Giurisprudenza all’Università degli Studi di Modena ed è diventata famosa per aver scritto un post dove condannava con forza e orgoglio gli attentati di un Parigi, ripreso dai grandi quotidiani nazionali, e un libro, Non ci avrete mai, edito da Rizzoli. Si ferma davanti all’entrata della Libreria Voltapagina per respirare un po’ prima di fare il suo ingresso. Dietro ha un trolley verde che sembra intonarsi perfettamente al suo velo e che ha trascinato fino dalla stazione. Neanche il tempo di prendere fiato che già sulla soglia viene intercettata dai tanti che sono accorsi per vederla. L’occasione è la nona edizione di It.a.cà , il festival sul turismo sostenibile nato a Bologna ma esteso da qualche anno a diverse città della regione, tra cui Parma. Il tema è Viaggiatori e Migranti. “Sono qui da quando avevo cinque anni e mi sono sempre sentita parte integrante di questo Paese“, spiega Chaimaa, in un italiano talmente fluente da sempre impeccabile. Invece, ad un orecchio attento non sfugge la pronuncia e la parlantina tipica della zona dov’è cresciuta: “Io ho sempre pensato di essere italiana, castiglionese, mantovana“. Ma spesso ciò che crediamo di essere non corrisponde a quello che gli altri vedono di noi e rischiano di mettere in dubbio la tua identità :”Mi chiedevano se ero italiana o marocchina. All’inizio avevo un rapporto molto difficile col Marocco, perché queste domande cercavano di farmi identificare con un Paese di cui in realtà conoscevo molto poco”.
Da tre anni a questa domanda esiste una risposta definitiva, per via ufficiale: “Quando ho finalmente ricevuto il decreto per la cittadinanza, per ufficializzare il mio status, è stata un’enorme gioia. Potevo essere parte integrante di questo Paese e nessuno poteva chiedermi se ero italiana, anche se c’è ancora qualcuno che lo fa“. Soprattutto di questi tempi, poi, il dibattito sul riconoscimento di quelli che sono italiani di fatto è sempre più acceso e, purtroppo, confuso. Della proposta di legge sullo Ius Soli si parla tanto, trascurandone l’urgenza a favore dei calcoli elettorali. “C’è tanta mala informazione su questa proposta di legge. Se ne parla come se fosse il diritto autentico, ovvero che si ottiene la cittadinanza solo nascendo in Italia. In realtà è una cosa molto più complessa e completa, il cosidetto Ius Soli temperato e Ius Culturae: si tratta di permettere ai molti ragazzi che, come me, sono venuti in Italia da piccoli e che hanno compiuto tutto il loro percorso di studi qui, hanno vissuto qui e la loro prospettiva di futuro è qui, di essere riconosciuti. Poi c’è lo Ius Soli temperato che consente ai bambini che nascono qui di essere italiani”. Sulla validità di un simile decreto, Chaimaa non ha riserve: “Credo che approvare questa legge sia un atto di civiltà. Non possiamo ritenerci civili se non riconosciamo i ragazzi che stanno facendo il futuro del paese. Alcune sono eccellenze. Bisogna puntare su di loro“.
Ed è proprio di loro che parla il suo libro, ‘Non ci avrete mai’, che durante l’incontro viene presentato a Parma per la seconda volta. “Dopo che ho pubblicato il post su Facebook ripreso da Repubblica e da altre testate – confida Chaimaa – mi hanno chiesto dalla Rizzoli se volevo o no raccontare qualcosa in più. Ho ritenuto che fosse importante scrivere la storia semplice di una ragazza nel quotidiano, di quelli che sono i suoi pensieri e il suo percorso di vita, simile a quello di tantissimi altri ragazzi e ragazze, i cosiddetti nuovi italiani di cui molti ignorano l’esistenza. Una vita di cui spesso si parla ma che in pochi conoscono”. Nasce tutto da lì, da quella lettera condivisa sui social e poi finita sui maggiori quotidiani nazionali. Un grido telematico di orgoglio, una condanna feroce alle stragi compiute in nome delle fede e un monito di resistenza: “Non ci avrete mai”. Ma soprattutto un gesto istintivo, dettato da tante sensazioni contrastanti provate dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. “Non riesco ad identificare bene i sentimenti che mi hanno spinto a farla – spiega, afferrando il microfono – ma due cose mi sono chiare: da una parte la rabbia e dall’altra il dolore. Rabbia perché vedevo questi disumani che si appropriavano della mia fede, la fede di milioni di persone, e la trasformavano in qualcosa di brutale. Dolore perché sono morte tante persone. Sentirlo ha fatto traboccare il vaso, perché in realtà era una cosa che già covavo dentro da tanto tempo. Mi sono detta che lo dovevo fare in nome di tutte le persone che, come me, stavano provando questi stessi sentimenti”. Persone che l’hanno riconosciuta come l’espressione di tutti quei valori e di quella versione della fede islamica in cui milioni di musulmani credono. Una versione che secondo molti non esiste, convinti che l’unica faccia dell’Islam sia quella impugnata dagli autori delle stragi di cui quotidianamente vediamo i volti in televisione.
Ma la realtà è molto più variegata e spesso chi lo pensa non conosce bene l’argomento di cui sta parlando. “Io penso che qualsiasi religione debba essere analizzata a fondo. In Italia c’è un’ignoranza in questo tema in senso lato, da tutte le parti. Molti dicono di essere cristiani ma poi non conoscono diverse cose del cattolicesimo” sostiene, consapevole della complessità del tema, “nel momento in cui si parla di una fede bisogna conoscerla e non bisogna mai estrapolare dei concetti o delle frasi per sostenere una propria teoria. Il Corano non è un libro che va attuato a livello letterale ma ci sono i saggi che hanno il compito di interpretarlo a seconda del tempo e del modo. La stessa cosa non dev’essere fatta con i testi delle altre religioni. Perché è una mancanza di rispetto e per farlo bisogna aver studiato”. E spesso non basta. Passare la propria vita a leggere e ad imparare tutto sulla propria religione può non essere sufficiente per conoscerla senza rischiare di fraintendere.
“Perfino io che sono musulmana devo stare molto attenta. Bisogna tener conto che la fede non si basa solo sul libro ma anche sulla Sunna, ovvero i detti e la vita del profeta Muhammad“. Come spesso accade, quando un credo è seguito da milioni di adepti lo spazio per interpretazioni diverse è decisamente ampio. E si rischia di allontanarsi. “C’è il problema che in molti luoghi del mondo a maggioranza musulmana il Corano viene attuato in maniera letterale. L’Islam praticato in Europa non è uguale a quello praticato nel resto del mondo. Dipende dal contesto in cui si vive“. E nel nostro contesto Chaimaa è perfettamente calata e inserita, tanto da essere in grado di vedere dove sono i problemi e le difficoltà . Non a caso, in seguito alla pubblicazione del post, è diventata un punto di riferimento per i giovani di seconda generazione che vivono in Italia, ed è sempre in prima fila per favorire la comprensione reciproca e l’integrazione. Anzi, sarebbe meglio dire interazione, “perché integrazione mi sa molto di un rapporto univoco, una sola parte che cerca di ritrovarsi nella società , che si sforza per entrare in qualcosa di diverso. Invece interazione è qualcosa di più bello perché è più completo, un processo che inizia da tutte e due le metà . I termini sono importanti e bisogna stare attenti a scegliere quale usare“.
Anche perché le parole costituiscono il primo passo per un ricco incontro tra culture diverse. Proprio questo genere di scambio ha poi portato le lingue ad evolversi nel corso dei secoli e a coniare nuovi significati. Lo sa bene Chaimaa, che da quando era bambina è abituata cercare un punto d’incontro tra il marocchino e l’italiano: “Una delle parole che spiego nel libro è zwinissimo, che deriva dall’arabo zwin e significa bello. Quindi per il superlativo uso il suffisso italiano e per dire che una cosa è bellissima dico “zwinissimo”. Ma non lo usiamo solo io e i miei genitori ma tante altre famiglie di origine marocchina. In realtà è una cosa che viene fuori naturalmente, non te ne accorgi nemmeno”.
Un modello di fusione tra mondi differenti che trae spunto dall’incontro e non dalla sopraffazione. Altrimenti, si rischia di imporre uno stile di vita che ti costringe ad ignorare il mondo da dove vieni a vantaggio di quello dove vivi: “Dobbiamo evitare di chiedere ai ragazzi di aderire a dei prototipi culturali precisi, o si avrà un tipo di assimilazione, come in Francia e in Belgio, dove o eri completamente francese e rinnegavi le tue origini oppure eri di Serie B. Questo è un problema gravissimo. Spesso ci sono ragazzi che pur di farsi accettare rinnegano le proprie radici. Invece, conoscere le proprie radici vuol conoscere se stessi“. Ma l’identità non è solo questo, bensì un qualcosa che sta a metà tra il passato e il presente. Perché se conosci da dove vieni è più facile vedere dove devi andare. “Non bisogna prendere tutto quanto, ma il meglio da entrambe le parti. Questa è la sintesi delle seconde generazioni“. Una sintesi che viene da lontano e che conduce verso il futuro.
di Elia Munaò
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