Arrival: quando non si prendono premi ma si vince in qualità
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L’uomo da sempre popola le terrae incognitae di immagini, abbiamo bisogno di proiettare le nostre favole nel vuoto conoscitivo, per ridurre il mistero, per attenuare la paura, per parlare in qualche modo di noi elaborando storie alternative alla nostra realtà. Lo spazio galattico e intergalattico che ci circonda non è forse coperto da un denso brusio di voci, da una spessa trama di parole? Da qui il bisogno di popolare l’ignoto con favole e con fantasmi da usare come puntelli alla conoscenza.
È proprio di parole e conoscenza che ci racconta Arrival, film di fantascienza del 2016 diretto da Denis Villeneuve, basato sul racconto ‘Storia della tua vita’ di Ted Chiang, e scritto da Eric Heisserer, che ha come protagonisti Amy Adams, Jeremy Renner e Forest Whitaker. Il film è stato presentato il 2 settembre 2016 in concorso alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Dodici misteriose astronavi extraterrestri appaiono sulla Terra. I governi di tutti i paesi ospitanti si mobilitano per comprendere lo scopo del loro arrivo. La linguista Louise Banks (Amy Adams) viene chiamata a guidare una squadra di esperti, costituita nell’intento di comunicare con la specie aliena nel sito di atterraggio del Montana. Il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) e il colonnello Weber (Forest Whitaker) assistono la dottoressa Banks nelle sue ricerche, attraverso, però, approcci e finalità del tutto diverse da quelle della linguista.
Il film sviluppa e spiega la ‘teoria della relatività‘ della Linguistica moderna. La teoria di Sapir-Whorf afferma che se si apprende e assorbe una nuova lingua, si inizierà anche a sognare e a pensare in quella stessa lingua. A circa metà film apprendiamo che gli alieni riescono a scrivere una frase simultaneamente con entrambe le mani. Conoscono la fine della frase mentre ne stanno scrivendo l’inizio. Mentre Louise cerca di scrivere nella loro lingua, i suoi pensieri diventano confusi. Inizia ad avere vividi flashback del suo passato. Questo linguaggio le porta alla mente ricordi della figlia che ha perso, o che perderà.
L’ambiguità della traduzione si rivela quando, rispondendo alla domanda di Louise su quale sia il loro scopo sulla terra, gli alieni rispondono con simboli traducibili come “offrire arma”. La lingua, intesa come ‘arma’ o ‘strumento’, rappresenta nella coscienza aliena il mezzo più potente di tutti.
Emerge così come il linguaggio sia in grado di cambiarci e di come possa metterci in contatto non solo con gli ‘altri’ ma anche con parti di noi nascoste o dimenticate.
Ambizioso nella concezione e straordinario nell’esecuzione, Arrival è tecnicamente meraviglioso, solenne, sinistro e, a volte, insondabile. Il film, allo stesso tempo vecchio e nuovo, rivisita molte delle convenzioni alien-invasion ma con intelligenza inaspettata. Porta gusto e sobrietà a un genere a volte fallimentare e crea un mondo unico in cui il tema della divulgazione extraterrestre si coniuga al bisogno umano di comunicazione, laddove comunicare significa collaborare. Un puzzle inquietante che gioca con le nostre aspettative e stravolge il nostro modo di pensare, di percepire. A tratti cupo e malinconico, esplora profondamente i temi della vita e della perdita.
Un film che guarda nel profondo e che costringe a riconsiderare ciò che ci rende veramente umani. Ancorato da una performance straordinaria di Amy Adams, ricca di profondità emotiva, il dramma sostiene la paura e la tensione dello spettatore.
Un’operazione quella di Arrival riuscita e che lascia più del solo piacere di una buona visione. L’apparente inconfutabilità dei nostri ideali genera spesso una comoda arrendevolezza di coscienza che, esule dal tempo a noi ignoto, diviene così incoscienza. Il film ci scuote dal torpore dell’inconsapevolezza, fino a indurci a confrontarci con le domande della vita e, simultaneamente, generando interrogativi che rincorreremo probabilmente in eterno.
di Vittoria Fonzo
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