I tempi stanno cambiando dopo la “bufera Weinstein”
BIG LITTLE LIES VINCITRICE AI GOLDEN GLOBE, DOVE LE ATTRICI "IN NERO" HANNO PROTESTATO CONTRO LE VIOLENZE
«Che cosa stai indossando?». È questa la domanda più spesso rivolta alle donne sui red carpet di tutto il mondo. E quindi la decisione delle attrici di vestirsi di nero alla cerimonia di consegna dei Golden Globe, non risulta affatto casuale, negli scorsi anni molte attrici avevano denunciato il sessismo di questa domanda, e nel 2015 nacque anche l’hashtag #AskHerMore (chiedile di più).
Domenica 7 gennaio si è tenuta la cerimonia di consegna dei Golden Globe, alla quale la maggior parte di attrici e attori ha partecipato indossando abiti neri, per manifestare in favore dell’equità di genere, della parità salariale e contro le molestie sessuali che hanno sconvolto, nell’ultimo periodo, l’apparentemente perfetto mondo di Hollywood e non solo.
Una delle serie tv più premiate è stata Big Little Lies, prodotta da HBO: casualità, coincidenza o un chiaro messaggio della giuria?
La serie parla, infatti, di donne, di amicizia, ma anche di omicidio e violenza domestica.
Diviso in sette episodi, tutti diretti da Jean-Marc Vallée, il regista di Dallas Buyers Club e Wild, il telefilm ha avuto un enorme successo di pubblico e critica. C’è chi l’ha definita la serie tv dell’anno. Candidata per 6 Golden Globe, se n’è aggiudicati 4.
La storia racconta, in parallelo, le vite di alcune famiglie benestanti che vivono a Monterey, California, accomunate dal fatto che i figli sono tutti nella stessa classe, a scuola.
Le bugie dei figli si mescolano alle bugie, ben più grandi, e ai segreti degli adulti, coinvolgendo le competitive mamme in un orrendo omicidio.
La fotografia, l’intreccio, le inquadrature e la musica, tutto in questa serie è spettacolare e gestito in modo magistrale.
Il fatto più interessante resta sicuramente il tema, centrale alla vicenda, della violenza domestica, fisica e psicologica.
L’analisi, rappresentata sullo schermo, non è condotta solo dalla parte dell’aggressore, ma anche della vittima. Mette in chiaro i meccanismi psicologici che entrano in gioco quando si subisce una violenza: le molestie non vengono prese seriamente e le donne non parlano per timore di ritorsioni, nel peggiore dei casi, o di non essere credute, nel migliore. S’insinua anche l’ipotesi che siano loro stesse ad accettare, volontariamente, una molestia, per ottenere futuri favori o potere contrattuale.
A partire da ottobre, una serie di articoli e indagini di New York Times, New Yorker e BuzzFeed hanno dimostrato come le molestie a sfondo sessuale siano molto diffuse nel mondo dello spettacolo e hanno coinvolto, tra gli altri, il produttore Harvey Weinstein, gli attori Kevin Spacey e Dustin Hoffman e il comico Louis CK.
Weinstein, in particolare, ha 65 anni ed è, ormai, un ex potentissimo produttore cinematografico. Negli ultimi mesi è stato accusato, da più di 90 donne, di molestie sessuali e, da alcune, di stupro. Sono state aperte indagini, nei suoi confronti, a Londra, Parigi e New York.
A metà dicembre, a Los Angeles, i capi di tutte le più grandi case di produzione cinematografiche di Hollywood hanno fondato una commissione per combattere i casi di molestie sessuali e di disparità sul luogo di lavoro: la Commission on Sexual Harassment and Advancing Equality in the Workplace.
Nelle settimane, che sono seguite alla pubblicazione dei primi articoli, molte attrici hanno condiviso le proprie esperienze, invitando altre donne a fare lo stesso e a far sentire le loro voci.
La reazione a catena generata ha avuto, come conseguenza diretta, la creazione di un movimento sul social network Twitter. Con l’hashtag #MeToo (anch’io) donne e uomini, di ogni classe sociale, e professione, hanno cominciato a postare, da ogni parte del mondo, denunce in 140 caratteri sulle loro esperienze di violenza o di molestie a sfondo sessuale, subite nel corso delle loro vite.
“L’effetto Weinstein” ha avuto risonanza in America, in Europa e in alcune parti dell’Asia, esempi ne sono gli hashtag #quellavoltache (in Italia) e #balancetonporc (in Francia).
La campagna #MeToo abbatte uomini potenti praticamente ogni giorno in Occidente: il movimento è iniziato dal mondo del cinema per poi diffondersi in altri ambienti, come lo sport e la politica.
In Cina sta iniziando, invece, nelle università: le studentesse sfidano la rigida censura del Partito comunista. La leadership cinese quasi interamente maschile, del partito, si sente minacciata dall’idea di poter essere colpita dalla campagna #WoYeShi (anch’io), sulle molestie, avviata dalle donne.
Le donne, del movimento #MeToo, chiamate “Silence Breakers” (coloro che rompono il silenzio), sono state nominate dalla rivista statunitense Time come “Persona dell’anno 2017”.
Concludo, citando le parole dell’attrice, di origini messicane, Salma Hayek (che figura nella lista delle donne che hanno denunciato Weinstein) pronunciate durante un’intervista del New York Times, in dicembre:
“Stiamo finalmente diventando coscienti di una piaga che è stata socialmente accettata e che ha offeso e umiliato milioni di ragazze come me, perché in ogni donna c’è una ragazza. Sono stata ispirata da quelle che hanno avuto il coraggio di parlare, specialmente in una società che ha eletto un presidente che è stato accusato di molestie e violenze sessuali da più di una decina di donne, in una società dove abbiamo tutti sentito dire come un uomo di potere possa fare quello che vuole alle donne.
Tra il 2007 e il 2016 soltanto il 4 per cento dei registi dei film girati era donna. E l’80 per cento di loro ha potuto fare un solo film. Nel 2016, poi, solo il 27 per cento delle parole pronunciate nei film più importanti sono state dette da donne. E le persone si chiedono perché non avete sentito prima le nostre voci. Penso che i dati si spieghino da soli: le nostre voci non sono benvenute”.
Ma ora basta con bugie e segreti. Ora i tempi stanno cambiando.
di Camilla Turrini
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