Dialogo col vero protagonista di… The Post

INTERVISTE IMPOSSIBILI: CONFESSIONI DI UNA RECENSIONE

The Post 1ParmAteneo ha deciso di inaugurare una nuova rubrica di speciali e approfondimenti sui migliori film del momento, dialogando con i loro protagonisti nascosti. Per questo prima volta, abbiamo avuto l’onore di intervistare il grande protagonista del film The Post di Steven Spielberg, con Tom Hanks e Maryl Streep: la copia del Washington Post uscita il 18 giugno 1971, che ha ripreso la pubblicazione dei Pentagon Papers dopo che il Presidente Nixon aveva fatto bloccare le prime rivelazioni fatte dal New York Times.

Buonasera, vuole presentarsi?
Salve, sono la copia del Washington Post uscita la mattina del 18 giugno 1971. In realtà, sono una delle tante che durante quel famoso venerdì inondarono le strade delle città della Est Coast americana.

Qual è il suo ruolo nel film?
Interpreto me stessa. Appaio nella scena finale, la mattina di quel famoso 18 giugno, dove si vedono i camion pieni delle copie del Washington Post in partenza per raggiungere gli edicolanti.

Può raccontarci qualcosa di quella fatidica giornata?
Appena sono stata stampata, io e gli altri giornali siamo stati presi, impacchettati e spediti in giro sui camion dei distributori. Ricordo che era mattina presto, le 5, forse, mentre gli edicolanti ci riponevano sugli scaffali. Tempo pochi minuti e vidi frotte di persone accalcarsi alle edicole ed acquistarci. Stavano lì a sfogliare le pagine con una bramosia che finora non avevo mai (letteralmente) visto e non riuscivano a staccarci gli occhi di dosso. Io per la verità ero ancora molto intontita dal fatto di essere appena venuta al mondo, sa com’è, solo dopo mi ero resa conto di quello che era successo, che era esploso il caso dei Pentagon Papers.

Può spiegarci di cosa si tratta?
Certamente. Me lo sono fatta spiegare direttamente dalla mia coetanea, la copia del New York Times uscita pochi giorni prima di me, il 13 giugno. Nel 68′, il senatore Robert McNamara, Segretario della Difesa ai tempi della presidenza Nixon, aveva commissionato uno studio sulla guerra in Vietnam lungo ben 7000 pagine. Dovevano rimanere secretate per almeno mezzo secolo, ma Daniell Ellsberg, ricercatore che aveva avuto accesso a quei documenti, decise di fotocopiarle per far sapere al popolo americano che ben cinque presidenti, da Truman allo stesso Nixon, avevano mentito sull’intera Guerra del Vietnam. All’inizio, Ellsberg contattò Neel Sheehan, una delle più importanti penne New York Times che aveva scritto diversi articoli sul conflitto. Così, il 13 giugno iniziarono le rivelazioni che però furono bloccate quasi subito da un’ingiunzione della Corte Federale.

Ed è qui che entra in gioco lei, giusto?
Io di fatto no, perché non esistevo ancora. Però, in un certo senso, già prendevo forma nella mente del mio direttore, Ben Bradlee. Bradlee, interpretato sullo schermo da Tom Hanks, era sempre sulla notizia, un giornalista vecchio stile che stava dietro a qualunque caso finché non aveva qualcosa di concreto. Non si inventava certo le notizie, lui. Anche se, fino a quel momento, sui Pentagon Papers non aveva avuto che informazioni di seconda mano.

Qual è stata la svolta dell’inchiesta?
Ben Bagdikian, uno dei redattori di Bradlee, aveva conosciuto Ellsberg in gioventù. Riuscì a rintracciarlo e a farsi consegnare le prime 4000 pagine dei Papers. A quel punto, bisognava decidere non quando pubblicare ma “se” farlo. In caso favorevole, il Post rischiava di essere citato e portato in tribunale dal governo. Fu allora che giocò un ruolo decisivo l’editrice della testata: Katherine Graham, figlia del fondatore Eugene Meyer. A quei tempi era l’unica donna ad avere un ruolo di potere in un giornale e c’era arrivata quasi per caso. Infatti, il padre aveva inizialmente deciso di lasciare la sua creatura in mano al marito di lei, Philip Graham, morto suicida qualche anno dopo. Ma Katherine ce l’aveva nel sangue e quella notte lo dimostrò scegliendo di pubblicare nonostante il rischio di perdere l’azienda. Se non fosse stato per lei, io non sarei mai uscita.

Non a caso, la Graham è interpretata sullo schermo da una delle più grandi attrici di sempre: Maryl Streep…
Il ruolo sembra essere scritto apposta per lei. Vestendo i suoi panni, è riuscita a riportare sullo schermo tutte le sfumature di una persona che si trova a dover fare una scelta di enorme importanza e giocarsi tutto quello che possiede. Una grande prova attoriale che le ha portato la ventunesima nomination all’Oscar (più di ogni altro nella storia, ndr) e che rischia di farle vincere la quarta statuetta. In effetti, la sua performance risalta nettamente sullo schermo, anche rispetto ad altri colleghi blasonati come Tom Hanks/Bradlee o Bob Odenkirk, che interpreta Ben Bagdikian. Senza contare che, all’epoca, Katherine si trovava ad agire in un mondo popolato da soli uomini che la giudicavano inadatta a quel ruolo. Ci voleva coraggio per decidere di mettersi contro il presidente, inimicarsi il governo e rischiare la chiusura del proprio giornale affinché la gente potesse conoscere la verità. Alla fine, il film parla di questo: più che della storia in sé, ci racconta il peso di una scelta fondamentale che ha cambiato un’intera nazione, dei passi che sono stati percorsi per arrivarci e della posta in gioco. Non solo il patrimonio della Graham, la sopravvivenza del Post o del lavoro di qualche giornalista: la posta in gioco era la stessa libertà di stampa.

The post 6Infatti il lavoro di Spielberg rende alla perfezione l’ansia e la tensione, da una parte anche l’eccitazione, del giorno che precede la pubblicazione. Non a caso, è quello il punto focale, l’occhio del ciclone dell’intero film.
Questo grazie ad una regia chirurgica, messa in piedi da un maestro come Steven Spielberg. Lavorare con lui è un’esperienza catartica: riesce a restituire perfettamente sensazioni e ambienti, nelle sue mani la telecamera ti porta dentro la storia e riesce perfino a spettacolarizzarla senza farla diventare retorica. Cosa a cui hanno contribuito anche le scenografie, capaci di ricostruire interamente la redazione del Post degli anni 70′, piena di macchine da scrivere, posacenere stracolmi e i telefoni che squillavano all’impazzata. Non a caso se ne è occupato il due volte premio Oscar Rick Carter. E non dobbiamo trascurare la fotografia assolutamente retrò, che usa il vecchio 35 mm, realizzata da Janusz Kaminski e i costumi di Ann Roth.

Com’è stato recitare gli eventi che lei stessa ha vissuto ormai 47 anni fa?
Strano, ma anche nostalgico. La mia scena preferita è quando, finalmente, viene dato l’ordine di stampare. Ai tempi la tipografia stava nello edificio della redazione, anche se al piano terra o nei sotterranei. Per collegare la “sala macchine” alle scrivanie dei cronisti veniva usata la posta pneumatica attraverso una serie di tubi che spedivano i bossoli a destinazione. Poi, arrivavano agli stampatori che preparavano minuziosamente le lastre da sottoporre alle linotype. Oh, se le avesse viste! Erano mastodontiche creature fatte di ingranaggi e inchiostro, gocciolanti di piombo fuso che ricomponevano le pagine sulla carta. Poi, le rotative partorivano i giornali e li facevano scorrere sui rulli. Proprio da una “incubatrice” simile a quella vista nel film sono nata io. É il ritratto di un mondo che non c’è più.

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A proposito di mondi scomparsi, come vede lei della vecchia guardia l’evoluzione attuale del giornalismo?

In maniera entusiasta. I giornali di carta, come me, oggi sono sempre più rari e forse, a pensarci, è giusto così: i telefoni nelle vostre tasche vi permettono di accedere a migliaia di informazioni diverse. Prima, c’eravamo noi e basta o, tutt’al più, la televisione. Avevano il monopolio dell’informazione. Oggi chiunque, col quella scatoletta composta da plastica e vetro nero, può contribuire. Forse è vero, dunque, che non esistono più i giornali ma il giornalismo è più vivo che mai. Il che non può che farci bene. Certo, bisogna sempre distinguere le notizie giuste da quelle sbagliate, cosa che accadeva anche quarant’anni fa e capire quali sono quelle che vale la pena mostrare alla gente. Non tutte le notizie possono infatti diventare la “prima bozza della storia”. Alcune devono necessariamente farsi da parte.

 

Di Elia Munao’

 

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