Hiv e Aids a Parma: “Uno stigma ancora oggi come trenta anni fa”

DIAGNOSI TARDIVE E POCA INFORMAZIONE LA FANNO DA PADRONE, MA C'È UNA VITA DOPO LA MALATTIA

Riconosciuta come malattia nel 1981, in un primo momento venne chiamata GRID (Gay-related immune deficiency) perché si pensava fosse una malattia riservata agli omosessuali. Superato questo limite, si ricollegava la malattia esclusivamente alla tossicodipendenza. Se eri eterosessuale e non facevi uso di droghe, nel sentito comune eri come immune. Sbagliato allora, come oggi. Perché anche oggi il virus è tra noi: Parma si attesta al terzo posto in regione con diagnosi di Hiv nel 2015, con un’incidenza del 7.8%. Non solo: gli ultimi rilevamenti statistici dimostrano che la malattia non è così lontana da noi come potremmo pensare.

QUANTI E COME – Premessa: l’Hiv è il virus, l’Aids la malattia. Essere sieropositivi non significa essere malati di Aids, il virus può rimanere latente anche per anni e portare solo in seguito all’Aids. “Il virus Hiv si contrae principalmente attraverso il contatto col sangue e coi secreti genitali. Altri liquidi potenzialmente infettanti sono il latte materno e il liquido cerebrospinale”, spiega la dottoressa Degli Antoni, referente per la diagnosi e terapia dell’Hiv per l’Azienda ospedaliero universitaria e dirigente medico della struttura Malattie infettive ed Epatologia. “Attualmente la principale via di trasmissione è rappresentata dal contatto sessuale sia etero sia omosessuale“, afferma Degli Antoni. Stando a quanto riportato dal report della Regione Emilia-Romagna del 2016, questa causa è riscontrata nell’87% dei casi. Nel decennio 2006-2016, le persone sieropositive sono uomini (74%), italiani (70%), nella fascia d’età che va dai 30 ai 39 anni (32%). Soprattutto, nel 52% dei casi si tratta di eterosessuali.

Senza il test è difficile capire se si è contratto o no il virus, come spiega la dottoressa: “La fase acuta dell’infezione è nella maggior parte dei casi asintomatica. Il virus può causare malessere, febbricola, mal di gola, diarrea. Si tratta  comunque di sintomi aspecifici che simulano tante altre condizioni. Solo nel 10-15% dei casi si manifesta un quadro di infezione acuta importante“. Il rischio è quello di arrivare ad una diagnosi tardiva. Solo nel 2016 in Emilia Romagna è accaduto nel 55% dei casi.

“Quando diagnostichiamo l’infezione, a qualunque livello di funzione immunitaria e in qualunque stadio clinico, si propone sempre l’inizio di una terapia antivirale composta da un’associazione di tre farmaci che agiscono a diversi livelli del ciclo replicativo del virus per  bloccarne completamente la replicazione. L’assenza di replicazione virale permette di arrestare il ciclo di infezione/distruzione delle cellule CD4 (linfociti)  mantenendo un sistema immunitario il più possibile funzionante”, spiega Degli Antoni.
Il virus non viene attaccato in maniera diretta, ma gli viene impedito di “infilarsi nel RNA delle cellule e modificare il suo assetto“, afferma la dottoressa Borgese, internista presso Casa Betania, Cooperativa sociale di servizio e accoglienza di Parma.

Oltre a curare la malattia, la terapia “determina anche un vantaggio epidemiologico – sottolinea la dottoressa Degli Antoni – dato che l’azzeramento della replicazione virale riduce notevolmente la contagiosità della persona stessa, come dimostrato da più studi. La terapia, una volta iniziata, va assunta tutti i giorni per tutta la vita perché la sua  interruzione permetterebbe al virus di replicare causando notevoli danni all’organismo”. La dottoressa Borgese usa una metafora in questo caso: “È come un prato all’inglese. Se non lo tieni curato, diventa una foresta. Non c’è un erbicida, l’erba cresce comunque e il trucco è tenerlo tagliato”.

Le aspettative di vita di un soggetto che vive con l’infezione da HIV ed è in terapia antiretrovirale – continua la dottoressa Degli Antoni – sono attualmente quasi sovrapponibili  a quelle di un pari età sieronegativo.  I farmaci condizionano ovviamente  la vita delle persone come in tutte le patologie croniche, ma le terapie sono compatibili con ogni aspetto della vita sociale, personale e  professionale”. Pensiamo solo alle donne in gravidanza: “Ha permesso, se correttamente assunta e associata all’allattamento artificiale, di eliminare  virtualmente la trasmissione verticale dando alle donne sieropositive la possibilità di diventare madri senza rischio per il bambino”.

L’ultima frontiera in materia di prevenzione è la PrEp, cioè profilassi pre-esposizione: “Consiste nell’assunzione di una compressa da assumere tutti i giorni per prevenire l’infezione. Non sostituisce il condom e non è applicabile a tutte le persone, ma è indicata laddove ci siano situazioni di chiaro rischio, ad esempio una persona che pratica sesso non protetto con più partners”, conclude Degli Antoni. Attualmente non è prescrivibile in Italia, ma solo nel USA, Francia e Regno Unito.

LA SCOPERTA DELLA MALATTIA – “Direi che la vita delle persone sieropositive è condizionata, più che dai farmaci, dallo stigma che circonda questa situazione ancora oggi come trenta anni fa“, afferma Degli Antoni.
Le reazioni alla scoperta della malattia sono diverse da caso a caso. A parlare dell’aspetto psicologico della convivenza con l’Aids e della terapia, è Tomaso Torinesi, coordinatore di Casa Francesco a Parma, sede residenziale protetta per sieropositivi e malati di Aids e parte della Comunità Betania: “Negli anni le categorie di persone accolte sono diventate le più disparate. Anche le persone che hanno avuto il tempo materiale per una lunga accettazione, comunque, continuano ad arrivare qua portando con sé un enorme stigma sociale, un enorme difficoltà di vissuto, tanto che molti ospiti paradossalmente hanno il rifiuto della terapia“. Per quanto riguarda il rapporto con la società, il discorso nel 2018 è ancora complicato: “Purtroppo il grande problema di questa patologia è che ancora è veramente un marchio di Caino, […] anche se si pensa che è possibile contagiarsi con un solo rapporto non protetto, non vi sono distinzioni.”

Negli anni ’80-’90 del secolo scorso, la malattia è stata oggetto di grande discussione mediatica, quindi sottoposta agli occhi di tutti: “Se non altro se ne parlava molto – dice il coordinatore Torinesi – dopo anni a fare prevenzione nelle scuole sia per le sostanze che per l’Hiv, i giovani non sanno niente, non hanno idea. L’idea delle malattie sessualmente trasmissibili non gli appartiene. Manca un pezzo e sono molto più promiscui di 50 anni fa”. Contrariamente a quello che l’opinione pubblica è stata portata a pensare negli anni, ovvero che la malattia sia ormai un fantasma, “oggi le categorie più a rischio sono le meno informate ed attrezzate storicamente, quindi fondamentalmente gli eterosessuali. Ancora oggi parlare di Hiv o Aids spaventa tante persone. Abbiamo avuto anche persone esterne, che si occupavano della struttura a livello tecnico, e abbiamo visto che in alcuni casi anche un caffè deve ‘essere servito in un bicchiere di carta’, per paura. Comunque non tutti per fortuna. In linea di massima però la gente ignora ed è spaventa da questa malattia. Con le persone sieropositive puoi parlare, sederti a tavola, mangiare insieme, abbracciarle, puoi avere una vita totalmente normale. Per tanta gente questo però è ancora spaventoso.

Dal punto di vista psicologico il primo passo per muoversi nel senso della cura della malattia è la consapevolezza. “Chi ha comportamenti devianti con sostanze e alcol è ovvio che fatica ad essere un buon medico di se stesso. Il paradosso è che anche altri hanno questa dis-percezione di sé come malati, per cui il lavoro che noi cerchiamo di fare attraverso una serie di strumenti, è proprio far diventare le persone consapevoli del loro stato di salute e quindi anche delle mutate autonomie. Questa la difficoltà più grossa. Sembra una sciocchezza ma è fondamentale. Chi arriva con una condizione di consapevolezza di sé, sono coloro che poi nel tempo sono stati meglio.” In questo senso infatti il centro organizza diversi tipo di attività usando “la parte relazionale come strumento terapeutico principale”. Attività ludiche, uscite nei cinema, teatroterapia e colloqui psicologici, con lo scopo di rendere il paziente consapevole che la sua vita può essere gradevole anche dopo, nonostante la malattia.

IL CASO PARMIGIANO – Avere uno stile di vita normale è possibile e a dimostrarlo sono le storie che gli operatori portano con sé di persone uscite da comunità di cura che li hanno reintegrati nella società; una società che si era molte volte rivelata escludente in principio. Questo è proprio il caso di un ragazzo della provincia di Parma arrivato a Casa Francesco. A raccontare è sempre il coordinatore Torinesi: “Si è disintossicato qua dalle sostanze e aveva una caratteristica fondamentale: si è sognato diverso. Arrivò qui con l’idea ‘io non solo solo questo’ e ha fatto un ottimo percorso”. Il ragazzo però si poneva un quesito centrale del contatto con la società: il rapporto sentimentale. “All’interno del programma abbiamo parlato a lungo della questione relazionale. Era anche un ragazzo di bell’aspetto, simpatico e ci chiedeva: ‘Io quando esco di qui, se conosco una ragazza che mi piace davvero come faccio? Se non le dico che sono sieropositivo, domani lo scopre e si arrabbierà con me, ma se glielo dico questa donna scappa. Come faccio?‘. Ha centrato un problema molto grosso rispetto alla socialità”. Non ci sono risposte a questa domanda né un copione prestabilito, “nessuno di noi ha avuto risposte o soluzioni da dargli, non esistono formule per questo – spiega Torinesi – è tutto legato alla sensibilità personale di chi lo ascolta, alla capacità di mettersi in gioco e ai parametri culturali. Sapere cosa è pericoloso e cosa no. Posto che i nostri ospiti quando portano a termine la terapia di fatto non sono più contagiosi. Poi ovviamente bisogna mantenere le precauzioni corrette, ma vallo a spiegare a qualcuno di esterno”. La bellezza però è proprio nei casi in cui questa formula viene trovata, “infatti ora vive all’esterno con una compagna e un lavoro indeterminato. Ogni tanto viene qui ancora per le feste.”

La dottoressa Borgese sottolinea un ultimo aspetto: “Purtroppo l’Aids è globalmente in ripresa e Parma non fa eccezione. È una favola che siano le mobilitazioni da paesi meno agiati, come Asia e Africa, a causarla. La percentuale negli ultimi 5-6 anni è più alta tra gli italiani. Sono comportamenti e modi di vivere che facilitano l’ampliarsi della malattia”.

 

 

di Giulia Moro e Carlotta Pervilli

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