Giacomo Leopardi: un’altra idea di ‘rottamazione’

Il conflitto generazionale vissuto da una delle più grandi menti del nostro romanticismo

“Io vi prego e vi supplico, o Giovani italiani, io m’atterro dinanzi a voi; per la memoria e la fama unica ed eterna del passato, e la vista lagrimevole del presente, impedite a questo acerbo fatto, sostenete l’ultima gloria della nostra infelicissima patria, non commettete per Dio che quella che per colpa d’altri infermò, per colpa d’altri agonizza, muoia fra le mani vostre per colpa vostra”.

Scriveva così Giacomo Leopardi nel suo personalissimo manifesto del romanticismo, il ‘Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica’ un capolavoro di retorica e oratoria venuto alla luce esattamente 200 anni fa.

Era il 1818 e, da almeno due anni, impazzava tra le pagine culturali della già allora politicamente frammentata Italia quella che è stata ribattezzata polemica classico – romantica, polemica dalla quale Leopardi fu volontariamente escluso.

Strano a dirsi, ma è tutto vero. Si chiamava Giovanni Acerbi, ed è passato alla storia per essere stato il direttore della «Biblioteca italiana» negli anni di questo vulcanico dibattito culturale. Innescato dalla provocazione di Madame De Staël, una intellettuale francese che invitò i letterati italiani a guardare oltre i confini della loro tradizione culturale e fare riferimento alle letterature straniere da cui prendere spunto, l’acceso confronto ha segnato l’inizio del Romanticismo italiano.

L’Acerbi, gestendo tra le pagine del suo giornale le varie risposte degli intellettuali italiani alla Madama, pensò bene di trascurare il parere di un appena diciannovenne Giacomo Leopardi, ai più sconosciuto ma già consapevole della propria caratura intellettuale.

Per due volte Leopardi scrisse alla Biblioteca tentando di urlare il suo punto di vista, e per due volte al suo pensiero fu tolta la voce.

Un giovane dalle grandi capacità viene messo a tacere perché non ritenuto degno di sedere al tavolo dei grandi e poter portare il suo punto di vista, un punto di vista che avrebbe fatto la differenza, e che poi tutti avrebbero rimpianto.

Questa storia, così apparentemente incredibile dato che oggi tutti conosciamo l’importanza di Leopardi per la nostra cultura, è il perfetto ritratto di quell’abitudine tutta italiana a rimanere indissolubilmente attaccati alla propria poltrona, senza tener conto del nuovo che avanza.

Potremmo chiamarlo conflitto generazionale: uno scontro frontale tra chi non è in grado di mettersi in discussione e chi invece vorrebbe mettere in discussione tutto e tutti, non perché necessariamente nella ragione ma con tutte le ragioni per farlo.

Il “Discorso di un italiano”, che altro non è se non l’erede diretto, sebbene più corposo, delle due lettere mai pubblicate dall’Acerbi, è la risposta che Leopardi scrive alle “Osservazioni sul Giaurro” (il poemetto scritto dall’inglese George Byron) di cui è autore il Cav. Ludovico Di Breme, uno fra i più illustri intellettuali del suo tempo, e strenuo difensore delle posizioni classiciste nella polemica.

Leopardi non chiede il permesso di contraddire un grande del suo tempo, lo fa perché legittimato da dalle sue stesse idee. Nelle pagine del “Discorso”, Leopardi identifica un’idea di felicità che si allontana dal progresso – il vero tentatore di coscienze – e che può ritornare ad essere tale solo nel momento in cui dal passato si apprende, e si sale sulle spalle dei giganti per vedere oltre il muro del proprio tempo.

Leopardi ci ha raccontato la capacità di guardare in prospettiva un mondo che altrimenti rimarrebbe legato a dei paradigmi sbagliati. Non una “rottamazione”, ma la capacità di servirsi dell’esperienza altrui, fuori da ogni logica anagrafica, per riuscire a guardare il presente partendo dal passato.

Salvare l’Italia, secondo Leopardi, è possibile solo se si riesce a servirsi degli strumenti che l’hanno fatta grande nel mondo: l’arte, la cultura, la bellezza.

Nella meraviglia che fino in fondo è essenza dell’Italia, Leopardi ritrova la capacità di fare la differenza, di immaginare il mondo al di là della siepe e vivere alla ricerca di questo.

I critici l’hanno chiamata, con un’espressione molto bella, “tensione immaginativa”, ad indicare quasi un gesto, uno slancio, qualcosa che permetta di immaginare un futuro al di là del conflitto del presente.

Nel contrasto generazionale che Leopardi si trova a vivere c’è tutta la sua sofferenza, e allora come oggi della sua voce strozzata non si meraviglia nessuno perché le poltrone sono per gli antichi e le seggiole per i nuovi.

È in questo, però, che consiste il compito dei nuovi a 200 anni di distanza: dimostrare agli antichi che sedere su delle seggiole scomode aiuta a mantenere lo sguardo vigile evitando così di incappare di nuovo in quei tristi errori che fanno oggi, poco democraticamente, la nostra avvelenata Italia.

 

di Pasquale Ancona

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