Non siete Stato voi

LA STORIA DELLA TRATTATIVA NELLE CARTE DEI GIUDICI

Lo Stato ha trattato con la mafia. Questo potevamo già dirlo nel 2012 con la sentenza della Corte d’assise di Firenze riguardo le stragi del ’93. Oggi, alla luce della decisione dei giudici di primo grado di Palermo, possiamo aggiungere due cose: trattare con la mafia è reato e chi si è macchiato di tale crimine ha portato le richieste di Cosa Nostra direttamente sul tavolo dell’ex Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Leggi a favore in cambio della fine della stagione delle bombe.

In pratica un’estorsione.

Dopo la sentenza di condanna restano, però, alcuni nodi da chiarire.

Ricostruiamo la storia passo dopo passo.

12 marzo 1992. La mafia uccide Salvo Lima, secondo alcuni collaboratori di giustizia l’europarlamentare della Dc non aveva mantenuto la promessa di impegnarsi per l’annullamento del maxi-processo in Cassazione.

Nel 1992, dopo il sigillo della Cassazione sul maxiprocesso di Palermo, Totò Riina decide di vendicarsi eliminando tutti i politici che avevano preso precisi impegni con Cosa Nostra ma che non li avevano rispettati. Il primo è Salvo Lima, europarlamentare della Dc indicato da numerosi pentiti come il tramite dei mafiosi per arrivare a Giulio Andreotti (colpevole ma prescritto per mafia).

Il secondo obiettivo della lista di Riina è l’ex ministro Calogero Mannino dell’ultimo governo del Divo. Egli, intimorito da alcune minacce subite, decide di rivolgersi ai generali dei Carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e l’ex agente del Sisde Bruno Contrada (che poi verrà condannato per mafia).

La procura di Palermo sospettava che fosse stato proprio Mannino ad aver dato avvio alla Trattativa con i Corleonesi. L’ex ministro, imputato nel processo di Palermo, ha scelto il rito abbreviato e nel 2015, in primo grado, è stato assolto “per non aver commesso il fatto” poiché non furono portate prove tangibili di pressioni fatte dall’ex ministro siciliano per spingere i militari a trattare. Il gup nelle motivazioni della sentenza sottolineò che ad ogni modo era “altamente probabile” che “Mannino caldeggiasse una linea politica di non contrasto alla mafia”. La sentenza odierna riapre i giochi per il processo di secondo grado; staremo a vedere.

Al momento non siamo al corrente di chi ordinò al comandante del Ros Subranni di spedire il generale Mori e il suo vice De Donno a “parlamentare” con l’ex Sindaco di Palermo Vito Ciancimino, che come lo definì Falcone “era il più politico fra i mafiosi e il più mafioso tra i politici”. I due militari, oggi condannati rispettivamente a dodici e otto anni, chiesero di avere un contatto con la Cupola di Totò Riina, il boss che aveva ancora le mani inzaccherate del sangue di Giovanni Falcone. La risposta non tardò ad arrivare: il papello. L’elenco delle richieste, scritte dai boss siciliani, che vennero fatte recapitare ad ambienti istituzionali. Dodici punti tra cui: l’abolizione del 41 – bis, la revisione del maxiprocesso e la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara.

Ed è proprio qui che si annida il reato di violenza – minaccia a corpo politico dello Stato, vale a dire i tre carabinieri trasmisero al governo Amato prima e Ciampi poi le richieste estorsive di Cosa Nostra.

21 maggio 1992. La famosa intervista censurata in cui Paolo Borsellino rivela di essere a conoscenza di indagini in corso riguardanti Dell’Utri, Mangano e Silvio Berlusconi

Forse le motivazioni della sentenza riusciranno a chiarire anche come questo strano documento giunse nella mani di uomini dello Stato. Inoltre, i giudici di Palermo potrebbero stabilire se la strage di via d’Amelio venne portata a termine, grazie a complicità all’interno dello Stato, proprio per eliminare l’unico magistrato che stava indagando sulla trattativa e che era a conoscenza di indagini allora in corso riguardanti i rapporti tra Dell’Utri, il boss Mangano e Berlusconi. Non dimentichiamo che a dicembre 2017 è stato rinvenuto un pizzino autografo di Giovanni Falcone recante la scritta “Cinà è in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà venti milioni a Grado e a Mangano”. Sarà solo un’inquietante coincidenza ma a Palermo, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, l’inchiesta sui rapporti fra Berlusconi e la mafia siciliana scomparve dai radar.

Le bombe e la paura sortiscono l’effetto desiderato, lo Stato fornisce dei segnali, volontari e no, di “apertura” alle richieste della Cupola ad esempio la “non riconferma” di Vincenzo Scotti al Ministero dell’Interno, sostituendolo con Nicola Mancino (assolto dall’accusa di falsa testimonianza), o il “licenziamento” del direttore del Dap Nicolò Amato definito “il Dittatore” dai mafiosi. Oppure le dimissioni di Claudio Martelli da Ministro della Giustizia, dopo essere stato chiamato in causa da Licio Gelli per una vecchia tangente versata al Psi dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.

Il loro posto venne occupato da personaggi di secondo piano alla prima nomina, cioè Conso e Capriotti. I classici pesci fuor d’acqua. Difatti, lo Stato, pressato dalle bombe di Firenze, Milano e Roma del ’93, decise di revocare 330 provvedimenti di 41-bis ad altrettanti mafiosi reclusi.

L’ex guardasigilli Conso disse che fu “una sua decisione solitaria” presa “per fermare la minaccia di altre stragi” poiché “Provenzano era contrario alla politica delle stragi”. Come poteva sapere che la mafia, in cambio della fine delle stragi, pretendeva l’ammorbidimento del 41-bis? E come poteva conoscere la nuova strategia dei Corleonesi dopo l’arresto di Riina?

Tutto ciò rafforza la tesi della Procura di Palermo, confermata ora dai giudici di primo grado, cioè della presenza di un dialogo aperto tra i boss e le istituzioni. Un legame che dopo il 1993 è stato portato avanti da Marcello Dell’Utri, su cui pende una condanna in primo grado a dodici anni.

Alla luce della sentenza odierna, Dell’Utri, già condannato a sette anni per essere stato il garante del patto di protezione personale stipulato da Berlusconi con Cosa Nostra (durato fino alla fine del 1992), ha continuato ad essere il canale privilegiato usato da Provenzano e dai fratelli Graviano per portare le istanze della mafia siciliana al Cavaliere che non era più solo un’imprenditore dalle molte luce quante ombre, ma neo Presidente del Consiglio. Un’ipotesi che era stata già ritenuta provata in primo grado nel processo Dell’Utri ma che non aveva ottenuto sufficienti riscontri in appello.

Ecco spiegata la frase detta dal boss Giuseppe Graviano al suo killer Gaspare Spatuzza nel gennaio del 1994: “Grazie alla serietà di quelle persone ci avevano messo praticamente il paese nelle mani”. Spatuzza si trovava a Roma per organizzare l’ultima strage: un’auto bomba da far esplodere vicino alle camionette dei Carabinieri che facevano il servizio d’ordine alle partite. Fortunatamente, a causa di un inceppo al telecomando, la bomba non esplose. Forse non era neanche più necessario organizzare, come lo definì Graviano, un altro “colpetto” poiché Cosa Nostra aveva ottenuto tutte le garanzie che aveva sempre ardentemente cercato. La tregua così divenne pace. Una pax mafiosa che perdura da più di vent’anni. Nacque così la Seconda Repubblica.

I fratelli Graviano, boss del Brancaccio, vennero arrestati il 27 gennaio 1994 a Milano. Secondo il braccio destro di Provenzano Nino Giuffrè, i due avrebbero siglato un patto con Silvio Berlusconi.

Allo stato attuale delle cose Silvio Berlusconi, che si è definito estraneo ai fatti, potrebbe rischiare in modo concreto di essere rinviato a giudizio a Firenze come mandante a volto coperto delle stragi del 1993. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia … per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere … però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa” – così disse in una conversazione intercettata in carcere Graviano. “Al signor Crasto gli faccio fare la mala vecchiaia – continuò il boss di Brancaccio – vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste”.

Non sappiamo a quali cose vergognose si stesse riferendo Graviano, però i giudici di Palermo potrebbero dirci cosa la mafia siciliana chiese di fare al governo Berlusconi. Dato che l’ipotesi di estorsione allo Stato, almeno in primo grado, è stata confermata; la vera domanda da porci è:

Perché nessuno la denunciò?

Evidentemente non siete Stato voi.

di Mattia Fossati

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