Hate speech: come fermare l’odio fuori controllo sul web

INTERNET, TERRA DI NESSUNO: LIBERTÀ' DI ESPRESSIONE O LIBERO INCITAMENTO ALL'ODIO?

Nella società contemporanea, in cui prevale una comunicazione iperdinamica e diversificata, lo spazio pubblico è più che mai sinonimo di presenza simultanea di innumerevoli prospettive. Se quel luogo è la rete, il peso di questa parola è inimmaginabile. Potenzialmente ogni uomo sulla Terra può esprimere la propria opinione liberamente su canali multimediali accessibili a chiunque e ovunque. Ecco allora che se la propria opinione si fonda sull’odio questo si può diffondere di persona in persona come un virus, infettando via via un numero di menti sempre maggiore, dando vita a movimenti e scatenando episodi di violenza.

ODIO DA COMUNICARE  “Posto che la diversità è un valore, quanta possiamo sopportarne prima di cadere nel disprezzo nei confronti del diverso?”. Questa è la domanda critica mossa dal professor Giancarlo Anello, docente del Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali dell’Università di Parma che ha moderato il seminario ‘Odio da comunicare: Hate speech, cinema, internet e regole del discorso pubblico’ organizzato giovedì 4 ottobre presso il Plesso di via D’Azeglio, insieme all’avvocato e Dottore di Ricerca in Diritto Ecclesiastico e Canonico Dario Morelli. Nel seminario si è tentato di rispondere a questa domanda approfondendo il concetto di ‘hate speech’ dal punto di vista delle telecomunicazioni e delle piattaforme online, i metodi con cui tutelare i cittadini e applicare censura senza cadere nella violazione del diritto di opinione.

La libertà di espressione, teorizzata per la prima volta dalla Human Rights Commission nel 1948, può sembrare un assunto banale ma è frutto di scelte politiche ben precise. Emblematico è il caso verificatosi nel 1966: un articolo della Convenzione Internazionale dei Diritti Civili e Politici vietava qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisse incitamento all’ostilità o alla violenza, rimarcando la distanza ideologica fra il Patto Atlantico (favorevole alla libertà d’espressione e dunque contrario a questa legge) e gli Stati Sovietici, in cui si sentiva la forte necessità di porre un divieto a questa tipologia di discorsi intrisi di odio e discriminazione. Il fatto che ci debba essere un divieto è quindi una scelta di carattere politico, ma non deve essere per forza l’unica soluzione.

A livello mondiale, il controllo dei contenuti è affidato al gestore delle piattaforme che si serve di algoritmi in grado di contestualizzare il contenuto preso in analisi e, se necessario, censurare. Sorge spontaneo chiedersi se un’intelligenza artificiale può effettivamente sostituirsi alla mente dell’uomo e alla sensibilità umana. “L’unico modo ragionevole per operare un controllo all’incitamento all’odio, parlando di contenuti prodotti dagli utenti di social network o delle cosiddette piattaforme di video-sharing, è quello di utilizzare algoritmi che effettuano un controllo automatizzato dei contenuti stessi“. – spiega Dario Morelli – “Tutta via questi strumenti rischiano di non capire correttamente i messaggi, specialmente quelli basati su linguaggi artistici, politici o religiosi, in quanto non sempre riescono a comprendere il contesto del quale sono estrapolati“. L’esempio mostrato riguarda il monologo interpretato da Leonardo Di Caprio: la clip video mostra un discorso in cui si fa riferimento a fossette nel cranio umano che, nelle persone di colore, sarebbero più sviluppate in prossimità della zona del cervello collegata alla sottomissione mentre, in quello di un luminare della scienza come Isaac Newton, sarebbero più pronunciate in prossimità della zona collegata al genio. Indubbiamente questo video sarebbe da considerare a sfondo razzista se estrapolato dal contesto al quale appartiene, ovvero il film diretto da Quentin Tarantino ‘Django Unchained’ spiccatamente antirazzista. Quella scena all’interno del film ha dunque tutt’altro significato, ma se fosse pubblicata su una pagina social di neonazisti potrebbe diventare a tutti gli effetti un contenuto di odio.

Altro esempio significativo di ‘rilocazione’, ovvero di trasposizione o estrapolazione di un concetto dal suo contesto, è il film di propaganda nazista ‘Jud suβ’ diretto e pubblicato in Germania nel 1940 da Veit Harlan. Il film fu tra i preferiti di Heinrich Himmler che ne impose la visione ad ogni membro delle SS. È chiaro che, considerati i contenuti antisemiti e violenti della pellicola, questa andrebbe senza dubbio oscurata. Eppure, dato il contesto temporale al quale risale, questa assume un valore di documento storico di carattere politico-sociale tale che una sua censura sarebbe inammissibile.

IL PROBLEMA DELLA ‘RIPRODUCIBILITÀ’ – Cosa accade quando questi contenuti ‘infetti’ si riproducono sui canali multimediali, generando reazioni violente?  Durante il seminario è stato preso in analisi il fenomeno della memetica online, cioè “cretività collettiva fondata su singoli elementi molto semplici”, la descrive l’avvocato Morelli. Semplicità è la parola chiave di questo fenomeno:  è semplice comprendere l’ironia di un meme, riprodurlo modificandone i contenuti, come nel caso di Pepe the Frog. Nato su Myspace nel 2005 per mano di Matt Furie, Pepe era in origine semplicemente il protagonista del fumetto underground ‘Boy’s Club’. Qualche anno dopo, il sito web imageboard ‘4chanlo trasforma in un simpatico meme, la cui unica pecca era risultare a tratti misogino e irriverente. Pepe suscita ad ogni modo simpatia e viene condiviso e retwittato da grandi personaggi del mondo dello showbiz come le cantanti Katy Perry e Nicki Minaj. Viene così catapultato dal microcosmo nerd nel mondo dei cosidetti ‘normies’.

È in quel momento che il peggio si scatena: il meme che lo raffigura viene riprodotto da un elevatissimo numero di utenti, accompagnato da ironia a sfondo razzista e antisemita. Come il più tragico esito del gioco del telefono senza fili, Pepe diventa simbolo di odio e discriminazione, e i baffetti scarabocchiati sulla sua faccia non lo aiutano a discolparsi. L’autore, avendo perso definitivamente il controllo del suo personaggio, decide di farlo morire all’interno fumetto, sperando di spegnere così la bufera, ma il risultato è in definitiva il contrario di quello sperato: Pepe è ancora di più nel mirino della critica.

L’HATE SPEECH IN ITALIA – Se Pepe the Frog è un fenomeno prettamente americano, l’hate speech è molto diffuso e radicato anche in Italia. A portare alla luce per la prima volta nel nostro Paese quello che è a tutti gli effetti un grave problema di comportamento sociale è stata l’ex Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini. Dopo mesi di offese subite sui social network con commenti violenti, minacciosi e di carattere sessista, si è fatta portavoce della lotta all’odio che scorre totalmente fuori controllo sul web, evidenziando come la rete sia terra di nessuno, dove chiunque può riversare i propri pensieri, anche quelli più malsani, rimanendo del tutto impunito. La Deputata, nella sua campagna contro gli ‘haters’, ha predisposto una commissione contro l’hate speech intitolata a Jo Cox, parlamentare britannica uccisa da un estremista nazista, per rimarcare come i discorsi di odio siano spesso e volentieri rivolti contro donne e ragazze. La declinazione più terrificante è infatti senza dubbio il ‘cyberbullismo‘, questa particolare forma d’odio che colpisce i più giovani a tal punto da causare vittime tra chi è maggiormente indifeso di fronte alla cattiveria. Viene da chiedersi quale sia il limite da porre: d’altro canto è difficile credere che ricoprire di insulti “solo per scherzare” rientri nella libertà di espressione.

di Federica Gernone, Lisa Bracaccini, Riccardo Tonelli, Giovanna Giordano

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