Educare all’antimafia: la controcultura della memoria e della responsabilità

SVOLTO AL PALAZZO DEL GOVERNATORE IL PRIMO DI UNA SERIE DI CONVEGNI IN ATTESA DELLA LAUREA AD HONOREM A DON LUIGI CIOTTI

“Le mafie non sono solo un’organizzazione criminale” – esordisce così Michele Gagliardo, il Responsabile Nazionale Formazione di Libera invitato come relatore principale del primo dei quattro incontri di preparazione al 23 novembre, giorno della consegna della laurea ad honorem a Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, dal 1995 attiva nella lotta al crimine organizzato. Ed è proprio sul contrasto alle mafie che si è focalizzato il primo convegno, dal titolo La lotta alle mafie come responsabilità educativa e sociale. Non un semplice contrasto tramite gli strumenti a disposizione della magistratura ma attraverso l’educazione ad una nuova cultura.

Lo ribadisce più volte lo stesso Gagliardo nel corso del suo intervento: “Le mafie propongono una proposta educativa alternativa a quella dello Stato“. Addestrando i loro affiliati e le ‘nuove leve’ a seguire la forma mentis mafiosa, le organizzazioni criminali riescono a gettare le basi per la costruzione del loro impero del crimine. Il loro potere, secondo il Responsabile Nazionale Formazione di Libera, è dato quindi dall’attività culturale che le mafie compiono nel loro territorio, non solo quindi dagli atti di violenza.

“Se facessero solo azioni violente, i mafiosi non avrebbero tra le mani il potere di cui purtroppo godono” – rivela Gagliardo. Per fare breccia nel cuore delle persone, le mafie devono incunearsi all’interno della loro vita quotidiana perché “devi crescere immerso in quella cultura che ti inculca cos’è giusto e cos’è sbagliato”. Lo ha dichiarato anche il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura: “Ti fanno credere di essere il paladino del popolo. Della serie: se stai dalla parte della mafia sei nel giusto, se sei dall’altra parte della barricata sei il nemico”. Tutto ciò avviene attraverso piccole azioni, che ‘sfruttano’ quei valori che la società moderna ha spesso dimenticato. Ad esempio la (finta) solidarietà.

“Un mafioso aiuta i familiari di un mafioso detenuto, ad esempio, perché vi è un patto di sangue. Nella ‘Ndrangheta, le famiglie dei vari boss sono tutte imparentate tra loro, secondo uno spirito di condivisione e supporto. E’ come se la mafia colmasse alcuni bisogni ai quali la società non può o non vuole dar riscontro”.

Detto questo, cosa possiamo fare per combattere i valori della cultura mafiosa? “Dobbiamo ricoprire quei valori della nostra comunità che ci uniscono, partendo dal principio che il nostro sistema educativo non è un dogma: può e dev’essere riformato”, conclude Gagliardo. Indispensabile quindi investire nella memoria e nella narrazione, cioè nel ricordo delle vittime e nel racconto dei fatti di mafia. E per quest’ultimo obiettivo è fondamentale lo stesso giornalismo: “La stampa libera è una delle principali armi della lotta alla mafia“, afferma a margine dell’incontro lo stesso Responsabile della Formazione di Libera.

Partire da fatti che sono percepiti vicini a tutti noi è il sistema principale per spingere la comunità ad interessarsi al fenomeno della mafia. Una tema che spesso è percepito come un tabù. L’esempio è il Veneto, luogo dove il prossimo 21 marzo si terrà la ventiquattresima giornata dell’impegno e del ricordo delle vittime innocenti della mafia. “C’è la convinzione che in quei territori la mafia non esista”.

La mafia però c’è. In Veneto come nel resto del Nord Italia. Il tema ora è: dov’è l’antimafia?

CRITERI DI EDUCAZIONE –  Citando un detto del pedagogista Paulo Freire: “Educare vuol dire stare accanto alle persone, ma soprattutto avere un progetto“; Gagliardo afferma che solo così si può intervenire nella vita quotidiana. Infatti come spiega: “Io trovo fondamentale recuperare tre principi della buona educazione. Il primo riguarda la costruzione attorno ad un preciso profilo etico, che ha a che fare con le attese che le persone si scambiano durante le loro relazioni quotidiane. Stiamo parlando di attese che influiscono profondamente sul loro comportamento. Perché spesso ci comportiamo in virtù di quello che pensiamo che l’altro si aspetti da noi, e viceversa.  Il secondo, di conseguenza, implica che si costruisca questo profilo etico in modo che le attese di un gruppo acquistino, invece, un profilo civile, che contempla collaborazione, condivisione e molto aiuto. Il terzo, quello che noi chiamiamo profilo politico, è un lavoro attento tra comunanza e differenza: le persone appartenenti alla stessa comunità possono concordare su certe idee e discordare su altre, ed è proprio qui che bisogna confrontarsi, bisogna dialogare. Solo così si può costruire un collettivo possibile“.

PER NON DIMENTICARE – Altri due aspetti sui quali vale la pena investire riguardano la memoria e la narrazione. Josè Saramago, scrittore spagnolo, scomparso nel 2010, diceva: “Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità non meritiamo di esistere“. Così Gagliardo afferma che nella memoria esiste un riferimento al passato che, a sua volta, costituisce un’azione per il futuro: “Facciamo questo perché dentro quella memoria c’è il racconto di un pezzo di storia del nostro Paese, di accanimenti politici fondamentali, che ci dà la possibilità di costruire un incontro solido e profondo con la dimensione del nostro dolore e di quello dei parenti delle vittime della mafia. Questi sono i passaggi fondamentali sui quali Libera pone l’attenzione. Nel momento in cui ciascuno di noi riesce a creare un collegamento con il proprio mondo interiore, con il suo dolore e con i suoi sentimenti, si ritrova nella condizione di porsi delle domande, di dedicare la propria vita alla ricerca della verità, della passione e, soprattutto, della giustizia“. L’idea di giustizia nella mafia – continua il responsabile – è sempre violenta, immediata ed esemplare. Deve avere queste tre caratteristiche per far capire al prossimo cosa si possa o non si possa fare. Dall’altro lato c’è tutto un insegnamento nascosto, volto a riconoscere i propri sbagli, dai quali si può imparare, ovvero quelli della trascendenza e dell’aggressione“.

CHI E’ DON LUIGI CIOTTI – Nato a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno il 10 settembre 1945, dopo aver portato a termine le scuole d’obbligo inizia a frequentare i gruppi parrocchiali della Crocetta. Insieme a loro, nel 1965 fondò un gruppo, con l’obiettivo di aiutare i disadattati e i drogati per strada, che due anni dopo prese il nome di Gruppo Abele, il quale non si occupa solo di droga, ma sviluppa proposte per affrontare il disagio sociale nel modo più ampio possibile: dai servizi a bassa soglia alle comunità, dagli spazi di ascolto all’attenzione per le varie forme di dipendenza, tipo nuove droghe, alcool, gioco d’azzardo, consumi in senso lato, dall’aiuto alle vittime di tratta e alle donne prostituite, alle iniziative per l’integrazione delle persone migranti, come l’educativa di strada per gli adolescenti stranieri.

Negli anni Novanta, Don Ciotti inizia ad impegnarsi nel contrasto della criminalità organizzata. Dopo la stragi di Capaci e di Via d’Amelio del 1992, il presbitero fonda il mensile Narcomafie, di cui sarà a lungo direttore, e nel 1995 il coordinamento di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, oggi punto di riferimento per oltre 1.600 organizzazioni nazionali e internazionali, incluse diverse sigle del mondo dell’associazionismo, della scuola, della cooperazione e del sindacato. Nel 1996 Libera promuove la raccolta di oltre un milione di firme per l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati, e nel 2010 una seconda grande campagna nazionale contro la corruzione. Obiettivo di Libera è alimentare quel cambiamento etico, sociale e culturale necessario per spezzare alla radice i fenomeni mafiosi e ogni forma d’ingiustizia, illegalità e malaffare.

Nel corso della sua vita è stato invitato a tenere conferenze sul tema delle dipendenze in vari Paesi (Gran Bretagna, USA, Giappone, Svizzera, Spagna, Grecia, ex Jugoslavia). In tempi più recenti, è chiamato a parlare due volte in Messico, la prima dalla Commissione sociale della Chiesa, la seconda dalla Conferenza episcopale. Il 27 dicembre 1996 viene nominato Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. 

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