ColornoPhotoLife, Efrem Raimondi: la fotografia è “raccontare l’invisibile”

INTERVISTA AL FOTOGRAFO IN MOSTRA A BDC CON LA PERSONALE SULLA SUA FAMIGLIA “SCELTA”

Si è appena concluso ColornoPhotoLife, festival fotografico che si è svolto tra le aree espositive della Reggia di Colorno e dell’Aranciaia e, da quest’anno, anche a Parma, a Borgo delle Colonne.
Nato qualche anno fa dalla passione del suo fondatore Gigi Montali, in collaborazione con i volontari del Circolo fotografico Color’s Light, il festival è giunto quest’anno alla sua 9° edizione, presentandosi rinnovato sotto alcuni aspetti, ma sempre fedele al suo slogan originario: ‘Radici e nuove frontiere’. Dunque, l’intento si è riconfermato quello di intrecciare le radici della cultura fotografica con le innovazioni che la vedono protagonista al giorno d’oggi.
Il tema principe di quest’anno è stato ‘La famiglia in Italia’, che ha trovato la sua realizzazione, oltre che nel complesso di mostre di fotografi rilevanti nello scenario nazionale e internazionale, anche in un’intensa attività laboratoriale, in workshop, e appuntamenti a tema e di approfondimento.

LA MOSTRA DI RAIMONDI – Al numero 28 del Borgo delle Colonne si trova una suggestiva chiesa sconsacrata che è cantiere molto prolifico, ormai da qualche anno, di eventi relativi all’arte contemporanea nelle sue diverse forme con mostre fotografiche, spettacoli, performance, incontri e musica live. È questo lo scenario scelto per la personale del fotografo Efrem Raimondi, intitolata semplicemente ‘La mia famiglia’. Inaugurata l’8 novembre, la mostra è stata curata da Laura Manione e rimarrà allestita fino al 25 novembre.

QUESTA NON È UNA BIOGRAFIA – Efrem Raimondi è un fotografo italiano classe 1958. Al lettore basti sapere ora – in seguito capirà anche il perchè – che gli unici cenni biografici emersi dall’intervista sono pochi e riportati qui di seguito: “Ho iniziato a fotografare molto presto, nel 1980, e soltanto tre anni dopo ho cominciato a vivere di lei, in un mondo che era completamente diverso da quello di adesso. Avevo dei parametri perchè avevo dei referenti e questo mi ha permesso di crescere e di sviluppare il mio percorso”.
Ma l’attività di Raimondi va molto oltre. Ha presentato il suo lavoro in spazi tra cui la Triennale di Milano e il Maxxi di Roma. I suoi scatti sono stati pubblicati da riviste come GQ It, GQ America, Vanity Fair, Rolling Stone It, Capital, Interni Magazine, Gap ed altre. Ha collaborato con diverse aziende tra cui Trussardi, Ibm Italia, Prada. È stato membro dell’Hasselblad Master Jury e del Direttivo Afip International. Quest’anno ha curato lo Spazio Off del festival internazionale Perugia Social Photo Fest, presentando una mostra con undici autrici. Dal 2017 insegna Fotografia presso Raffles Milano.

Come nasce questa mostra fotografica all’interno del ColornoPhotoLife?

“Questa mostra, all’interno del ColornoPhotoLife seppur in una sede distaccata, nasce dalla volontà dell’ideatore del festival, Gigi Montali, ma a contattarmi per prima è stata Laura Manione, che è la curatrice. Il vero quesito di questa mostra era assemblarla coerentemente con il tema del festival, ossia ‘La famiglia in Italia’. A riguardo non avrei saputo che dire, quindi ho pensato che avrebbe potuto essere interessante parlare della mia. La mostra nasce da questa considerazione: il soggetto è sì la mia famiglia ma, in realtà, il soggetto sono soprattutto io da più punti di vista“.

Che rapporto la lega a Laura Manione, che ha curato la mostra? 

“Il rapporto con Laura Manione è stato un ottimo rapporto professionale e umano. Originariamente questa mostra aveva delle difficoltà dovute al fatto che andavo ad attingere da un percorso lungo trent’anni, con un tema che era la mia famiglia, e questo mi poneva necessariamente di fronte a dei quesiti. Sono stato io per primo a fare una selezione che le ho dato, con quattro immagini in più rispetto a quelle che compaiono oggi esposte. Successivamente, abbiamo iniziato a ragionare sul corpus della mostra; si è cominciato a stampare e si è fatto il catalogo”.

Come ha affrontato la scelta di chi far rientrare nella categoria ‘La mia famiglia’, e come interpreta, attraverso le sue foto, il concetto di famiglia?

“Per me la famiglia non è solo quella che trovi, che è indipendente da te. C’è un percorso, che è quello della tua vita, e che ti fa ritrovare in ambienti e situazioni, a stringere legami e rapporti non solo con altre persone, ma con altre vite. E allora ho cominciato a pensare che, in realtà, la mia famiglia è un qualcosa di più allargato rispetto al ristretto ambito consanguineo, e l’ho portata in questa mostra. C’è una pianta, ad esempio, che è un Ficus Elastica, che ho preso nel 1994 e che mi accompagna ancora oggi, con cui ho costruito un rapporto reale. Lo stesso vale per i miei gatti, anche se in questa mostra ne ho portati solo due. C’è pure una figura, che considero mia sorella ma che è acquisita, con cui ho un rapporto pluridecennale e molto forte, Annarita“.

Cosa ha rappresentato mettere insieme le foto? È stato il frutto di un percorso che ha fatto su di sé?

“Non è cambiato nulla rispetto al mio sistema, al mio modo di fotografare e all’idea che ho di fotografia; non ho trovato, almeno in questo senso, alcuna difficoltà ad assemblare la mostra. Il vero punto cruciale è stato, invece, la trasversalità con cui, attraversando tre decadi, ho dovuto necessariamente fare i conti. Se si esclude la foto che fece mia madre nel 1965, tutto il resto parte dal 1986 e arriva fino al 2015, dunque sono intervenuti fattori espressivi diversi tra loro che nascondono altrettanti approcci formalmente diversi l’uno dall’altro, ad esempio si va dall’uso del polaroid al banco ottico. Nonostante questo, però, neanche esporle mi ha creato difficoltà perchè mi ci riconosco: c’è un fil rouge nel percorso, che mi riguarda ed è esattamente coincidente con quello che per me è la fotografia”.

Perchè la scelta di sua madre icona della mostra?

“Mentre guardavo in archivio, alcune immagini le avevo presenti e sapevo che sarebbero dovute esserci in questa mostra. Poi, andando a cercarne altre, ho riscoperto quella foto fatta il giorno di Natale del 1997 a mia madre, e che avevo completamente dimenticato. Però so che c’era in qualche modo questo sottofondo, come una presenza, e quando ho aperto la cartella che conteneva quei negativi, me la sono trovata davanti, e per me è stata una seconda visione. Ed è esattamente così come la vediamo appesa. Lei ha lì uno sguardo nel quale mi riconosco moltissimo, e poi è mia madre e l’ho fotografata pochissimo. Quando ho rivisto quella foto è stato rivedere un’immagine sedimentata e riscoprirla di nuovo. Non ho avuto dubbi sul fatto che dovesse diventare l’icona di questa mostra”.

In un’intervista del 2016 al mensile MaledettiFotografi ha riferito di non amare le biografie, ma questa mostra implica la ‘scrittura’ di una parte della più difficile biografia che si possa scrivere, la propria. La considera la sua autobiografia in scatti?

“No. Anzi, detesto le biografie. Questa è una mostra che può essere biografica, ma in realtà la mia mira è sempre quella di coincidere con ciò che produco, quindi in questo senso, e soltanto in questo, posso definirla biografica. La fotografia è il mio linguaggio e dato che ho assunto una certa confidenza con lei mi sento di manipolarla, mi fa sentire a casa. Diverso sarebbe redarre una biografia usando la parola anche se mi è capitato, in alcune occasioni formali, che mi venisse richiesta. Mi mettevo a scriverla, ma si riduceva sempre a quattro righe perchè non sapevo mai cosa dire”.

Lei dice: “Per me le fotografie sono uno strumento, non un fine”. Allora, qual è il suo fine, se ce n’è uno? Cosa si propone di raggiungere con la fotografia?

Le fotografie sono uno strumento che uso per poter confermare o meno quell’idea di fotografia che ho come di un luogo ben preciso nel quale esse intervengono . L’idea di fotografia è ampia e più simile alla mia visione del mondo, dei rapporti”.

Pensa che oggi la fotografia resti ancora troppo rilegata in un ambito ristretto rispetto alle altre arti visive? Conosciamo molti nomi di registi, in tv li troviamo intervistati anche nei programmi di maggiore spicco, ma più difficilmente ci troviamo di fronte ad un fotografo. Lei percepisce questo? 

“Non ci ho mai fatto molto caso e non è un problema che mi pongo. Sicuramente la fotografia è un luogo che è molto cambiato in termini di produzione, d’approccio, e oggi è altro rispetto a dieci anni fa. Ho in mente un momento ben preciso a cui far risalire questa frattura, che è la seconda metà del 2008quando si è creato un crash reale dei rapporti che per lungo tempo avevano legato la fotografia a certe situazioni come i magazine e le gallerie d’arte. Quindi, cambiando, sono cambiate totalmente anche le relazioni, i luoghi, l’uso, il rapporto, l’approccio, la didattica”.

Qual è la frattura di cui parla?

“Il digitale ha creato l’illusione che la fotografia potesse essere un luogo a disposizione di chiunque, invece non è assolutamente così. Questa illusione ha provocato una serie di problemi in termini di produzione che è diventata massiccia, di una quantità di immagini con cui siamo bombardati quotidianamente. Ma così parliamo di fotografie. La fotografia, invece, non penso sia in uno stato così rigoglioso, e andare a cercare un linguaggio autoriale oggi è sempre più difficile. Non odio il digitale, ma è lo strumento tecnologico ad aver creato una quantità di rotture e di illusioni che hanno provocato una serie di catastrofi”.

A questo proposito, cosa pensa del fatto che oggi molti social si basino sulle fotografie, sulle immagini – Instagram, in primis – e facciano credere ad ognuno di noi di poter essere un fotografo? Questo provoca dispersione dei veri talenti, e una gran confusione di immagini veramente valide che si confondo in mezzo a tanto niente, o c’è anche qualcosa di positivo?

“I talenti hanno bisogno di mostrarsi, ma per farlo devono acquisire maturità. E perchè diventi maturo, un talento ha bisogno di disciplina, mentre i social inducono a pensare che non ce ne sia bisogno. Il vero obiettivo è di coincidere con ciò che si produce, e tanto più la mira è precisa tanto più devi conoscere come arrivare a mirare molto bene. Se non conosci, non miri. I social sono dei contenitori, nulla più. Instagram, su tutti, trovo che sia una grande bolla, cioè non un luogo in cui la fotografia è il soggetto. E questo lo riscontriamo soprattutto dal feedback che viene registrato intorno ad alcuni profili. Non c’è un rapporto proporzionale tra la quantità di riscontro che un singolo profilo può avere, e la qualità del prodotto che offre. Ha più a che fare col marketing“.

Per essere fotografi è necessaria una formazione specifica?

“Assolutamente. La grande frattura a cui accennavo prima ha comportato il venir meno, in questo decennio, degli essaiment, cioè dei commissionati, che erano il vero luogo di crescita dei talenti. Oggi se ne parla come di un taboo, ma tutta la produzione artistica che noi conosciamo ha sempre avuto a che fare con una committenza. Una committenza intelligente, come nel caso di un magazine,  che dichiarava di aver bisogno del tuo sguardo, ti permetteva di poter, nel tempo, essere sempre più coincidente con ciò che intendevi produrre. Tutto ciò all’interno di uno spazio, che era quello del magazine, altamente educativo perchè ti costringeva a segnare il perimetro del tuo percorso e crescere intorno e all’interno di esso. La fotografia che si è venuta a determinare dopo quel tipo di frattura non ha parametri di reale confronto.
Oggi, c’è bisogno di una committenza nobile ed acuta che dica: “Io credo nel tuo sguardo, tenta questo percorso. Io ti sostengo”. Questa un tempo era la prassi, ma la realtà che conosciamo oggi è ben diversa, e per i talenti diventa frustrante misurarsi con dei non luoghi”.

Lei perchè fotografa?

L’unico motivo per cui fotografo è per raccontare la mia vita. Ed è davvero l’unico, di tutto il resto non mi importa. Solo che raccontare la propria vita significa misurarsi con l’idea che hai del mondo e allora diventa un’altra cosa. Io credo nell’autoreferenzialità, ma dipende che cosa intendiamo con essa. Per quanto mi riguarda, per me è come riesco o meno a traguardare il mio sguardo rispetto a ciò che mi circonda. La fotografia si occupa dell’invisibile, non del visibile, è ciò che vedi tu attraverso la tua sensibilità. Quindi io fotografo per raccontare questo: ciò che è invisibile e renderlo visibile, ma mi interessa solo nella misura in cui io riesco a produrlo, a tirarlo fuori da quell’invisibilità e mostrarlo. Il come diventa la questione fondamentale, il come poi racconti la tua vita, ma questo è il passaggio successivo”.

 

di Giorgia Lanciotti
Servizio video di Fabio Manis, Lara Boreri e Tommaso Fonnesu

2 Commenti su ColornoPhotoLife, Efrem Raimondi: la fotografia è “raccontare l’invisibile”

  1. Intervista molto intelligente.
    Finalmente qualche domanda davvero interessante. E risposte altrettanto importanti.

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*