Guerre, migrazioni forzate e informazione: una visione limitata

TRE AMBITI STRETTAMENTE CORRELATI TRA LORO, MA ATTORNO AI QUALI VI È MOLTA CONFUSIONE E PERSISTE UN CLIMA DI EMERGENZA

John Englart (Takver)/Flickr

Crisi umanitarie invisibili e non enumerabili. Piccoli conflitti che si protraggono per anni, mietendo centinaia di vittime e di cui gli italiani non sapranno mai assolutamente nulla. Solamente il 3% degli italiani dispone di informazioni corrette sulle guerre in Africa. E i rifugiati rimangono la fonte di informazione primaria, portando “notizie di queste guerre con le loro storie, molto prima che ci pervengano dai canali ufficiali”. Così afferma Fabio Faccini, presidente del Consorzio Solidarietà Sociale, in occasione del seminario “Guerre, Immigrazione forzata e Informazione Pubblica” organizzato martedì 11 dicembre presso il chiostro del dipartimento di Discipline umanistiche e sociali e delle imprese culturali di Parma.

DIRITTI UMANI VIOLATI – Dopo i brevi saluti del direttore del dipartimento Diego Saglia, è intervenuto Emilio Rossi, presidente della Ciac Onlus (Centro immigrazione  asilo e cooperazione internazionale di Parma), ricordando come al settantesimo anno dalla dichiarazione internazionale dei diritti dell’uomo sia possibile assistere all’attacco dei diritti umani non più da regimi autoritari, ma dalle democrazie liberali.  Contrariamente alle propaganda politica del nostro governo in materia di immigrazione, secondo Fabio Faccini, presidente del Consorzio Solidarietà Sociale, è necessario contrastare l’intolleranza, la disinformazione e la diffusione di  falsi stereotipi facendo rete, perché  difendere i diritti dell’uomo è una questione che riguarda tutti trasversalmente: “Bisogna contrastare le leggi di uno stato se vanno contro la dichiarazione dei diritti dell’uomo, se noi accettassimo la disumanità immessa nella società ci priveremo alla possibilità di opporci mantenendo il nostro senso di umanità e difendendone i valori“. E tra i diritti dell’uomo vi è anche quello di emigrare per cercare condizioni di vita migliori.

PERCHÈ MIGRANO – Se cedere al messaggio della propaganda politica, criminalizzando la figura dell’immigrato e delle associazioni impegnate nell’accoglienza, può apparire talvolta immediato, non è altrettanto semplice comprendere le dinamiche che dietro al fenomeno dell’immigrazione. I migranti sono costretti a lasciare il proprio paese non sempre per cause legate alla guerra: cambiamenti climatici, violazioni sistematiche dei diritti umani, ‘stati falliti’ che non riescono ad assicurare protezione e sicurezza ai loro cittadini. E non solo. Interventi di sviluppo economico sempre più aggressivi, urbanizzazioni forzate e inquinamento dell’ambiente alterano le condizioni dei territori minacciando le economie locali già spesso fragili di per sé, costringendo all’esodo intere popolazioni. Secondo il sociologo Marco Deriu, professore di Comunicazione politica e ambientale all’Università di Parma, sarebbero visioni molto limitate quelle che semplificano la complessità di questi mondi, riducendo tutto a una massa informi di migranti. E contrariamente ad ogni stereotipo, che ad esempio si limita a far corrispondere nel religioso islamico la figura del terrorista, le vittime più colpite dal terrorismo sono proprio musulmane. Inoltre, per l’immaginario collettivo la rappresentazione e la comprensione di questi conflitti resta ancora molto distante dalla realtà, con confini nazionali non definiti e guerre che avvengono tra non-stati. Secondo Deriu: “Siamo poco informati e facciamo fatica a creare le giuste connessioni. Parliamo di problemi globali come se fossero locali e non  riusciamo a cogliere gli aspetti con i quali intratteniamo una molteplicità di relazioni”.  

L’INDEBOLIMENTO DEL QUARTO POTERE E LA REGOLAMENTAZIONE DEI CONFLITTI ARMATI –  In passato la stampa ha avuto un ruolo decisivo nell’influenzare la fine di diversi conflitti.  Per esempio secondo il giurista Hussein Shaban “sensibilizzando l’opinione pubblica, la CNN ha determinato la fine della prima guerra del golfo prima della politica”, attribuendo un ruolo simile anche all’emittente Al Jazeera nella conclusione del conflitto in Iraq del 2003. Citando Gandhi, Hussein Shaban sostiene che “l’uso della violenza contro il prossimo corrisponda sempre un uso della violenza contro se stessi, alla rinuncia ad una parte della propria umanità”. Ha ricordato, inoltre, come dalla convenzione di Ginevra  del 1949 in poi, e dai protocolli che sarebbero derivati nei decenni successivi, le potenze mondiali abbiano compreso l’importanza di regolamentare le guerre, attraverso norme che stabiliscano come trattare i prigionieri di guerra e come tutelare le persone durante i conflitti armati.

LA PRIMAVERA ARABA E L’INFORMAZIONE – “Non può esserci una stampa veramente libera senza una democrazia che la renda tale. Dove c’è una dittatura, la stampa diventa il megafono dei poteri in piedi.” Così il giornalista Saad Kiwan, ha commentato la situazione di paesi arabi come Egitto, Tunisia, e Siria, spiegando come il disegno comune di riunificazione di questi paesi musulmani sotto un unico governo abbia prodotto più danni che benefici, soprattutto per le popolazioni.  Questi paesi sono stati caratterizzati da una quasi assenza di libertà di stampa che, unita alle difficoltà strutturali ed economiche che il giornalismo ha affrontato con la rivoluzione digitale, ha reso spesso complicato avere informazioni chiare ed attendibili che non fossero frutto di partigianeria, confezionate ad arte per sostenere le rivolte contro i regimi o per essere a favore di questi ultimi. In questo contesto, secondo Saad Kiwan, movimenti islamici e governi autoritari dimostrano d’essere due lati della stessa medaglia.  L’unica eccezione per la libertà di stampa è stato il Libano, che prima della guerra, e fino agli anni 70, attirava giornalisti ed intellettuali che in una certa misura potevano avere una relativa libertà di espressione. La libertà di stampa non conosce sorti migliori in questi paesi neanche con “l’avvento della ‘Primavera araba’, nata come una  rivolta spontanea e senza obbiettivi di unità politica del mondo arabo, come dimostra lo slogan arabo ‘pane, libertà e giustizia’”.

GLI STUPRI DI GUERRA –  La sociologa algerina Samia Kouider ha concluso la prima parte del seminario ricordando come in tema di violazione di diritti umani, la violenza sessuale possa assumere una specificità particolare, essendo usata come strumento di guerra molto efficace per umiliare e distrugge gli individui “annientando il senso di comunità in un tempo indefinito, macchiandola dal punto di vista dell’identità”. Come ricorda Kouider: “È di ieri la notizia in che Congo centinaia di donne e bambini siano stati stuprati, un crimine che non essendo considerato un reato di guerra rimane impunito”. Nonostante nel 2008 la violenza sessuale sia stata definita da una risoluzione dell’ONU “una tattica di guerra per umiliare, dominare, instillare paura, disperdere o dislocare a forza membri civili di una comunità o di un gruppo etnico”, e si siano poste in questo senso le basi giuridiche per processare i responsabili di fronte al Tribunale penale internazionale dell’Aja, la risoluzione non ha previsto come e con quali sanzioni perseguire i responsabili, e nella pratica è stata applicata in pochissime occasioni.

IL RUOLO DEI GIORNALISTI – Un ruolo fondamentale nella percezione comune delle guerre e dell’immigrazione è quello che hanno i giornalisti, i professionisti dell’informazione,  in che modo l’informazione venga recepita dal comune cittadino.
Di questo ha parlato Giovanni Rossi, presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna, ex Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) e membro dell’Associazione Carta di Romache ha di recente presentato il suo sesto rapporto annuale, nel quale viene analizzato il comportamento degli organi di stampa italiani rispetto al tema dei migranti. Tema che viene strumentalizzato politicamente per sollecitare i sentimenti peggiori degli uomini: razzismo e ostilità nei confronti di chiunque sia considerato diverso.
A questo fine, sempre più spesso viene distorto il significato di molte parole della nostra lingua. Rossi ha portato come esempio di questo fenomeno una frase estratta da un discorso tenuto a Vicenza dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Per i clandestini la pacchia è finita“. Dell’affermazione è stata proposta un’analisi linguistica, che si concentra sui due termini usati impropriamente: clandestini e pacchia. L’Italia è firmataria di una convenzione internazionale, secondo la quale una persona, anche se entrata clandestinamente in un paese, nel momento in cui chiede una qualche forma di protezione, può restare legittimamente finché la domanda non viene accolta o rifiutata. Nel nostro paese, le procedure possono protrarsi per molto tempo, ma in questo periodo la persona non può essere considerata clandestina.
Inoltre, la pacchia’, stando alla definizione del vocabolario Treccani, è una “condizione di vita, o di lavoro, facile e spensierata, particolarmente conveniente, senza fatiche o problemi, senza preoccupazioni materiali; anche l’avere da mangiare e bere in abbondanza“. Di conseguenza, nel momento in cui Salvini dice che la pacchia è finita, sottintende che i migranti abbiano una vita semplice, senza considerare che le migrazioni sono forzate da guerre, leggi ingiuste, fenomeni di desertificazione o nuovo colonialismo.
Un’altro esempio di uso improprio della nostra lingua, portato da Rossi, è il titolo di un articolo: “Gli sbarchi non danno tregua, ma quest’anno sono l’80% in meno“. In questo caso, l’utilizzo illogico dell’italiano arriva a creare una frase che in sè è assurda. Secondo Rossi i giornalisti dovrebbero essere coloro che richiamano i politici alla responsabilità, senza atteggiamenti pregiudiziali. Non dovrebbero essere coloro che si limitano a ripetere ciò che dice un politico, ma coloro che si rifiutano di fare ciò. Oltre a questo, il giornalista deve stare solo ai dati, ai fatti, a ciò che è dimostrabile, senza distorcere nulla. La sua deontologia professionale impone correttezza, affidabilità e precisione. Nonostante ciò, secondo Valerio Cataldi, presidente dell’Associazione Carta di Roma, nell’informazione “il tono resta ansiogeno, da emergenza permanente“, anche se i dati sugli arrivi nel 2018 mostrano un calo rispetto al 2017.

Altre parole usate spesso, anche a sproposito, nell’ultimo periodo sono: ‘identità’ e ‘cultura’. Ma nel contesto mondiale attuale, caratterizzato da un continui scambi e contaminazioni, dovremmo interrogarci sul vero significato di queste parole. Del tema si è occupato Adel Jabbar, sociologo e saggista nell’ambito della migrazione e formazione interculturale. È impossibile, secondo lui, ridurre l’identità e la cultura a contenitori geografici ristretti: “Sono concetti dinamici, impossibili da catturare in una gabbia mentale”. Si parla sempre più spesso di difesa dell’identità e della cultura, ma è un discorso che sembra assurdo visto che le nostre città sono luoghi multiculturali per natura. In esse coabitano persone diverse per lingua, provenienza, stile di vita. Nonostante ciò, la retorica identitaria oggi cerca di fingere che la nostra cultura sia minacciata da un vago ‘loro’ perchè si basa sulla visione secondo cui la nostra identità deve essere tutelata e protetta.
Non esistono culture che si incontrano, ma persone che entrano in contatto con persone. Ognuno interpreta il proprio bagaglio culturale a modo suo, “non esiste l’ homo islamicus o l’ homo cattolicus”, come ha efficacemente detto Jabbar. La ricerca della verità dei fatti rimane l’unico argine ad una costruzione distorta della realtà che al giorno d’oggi è sempre più frequente. Necessità ben presente al Washington Post, che ha proposto di “evitare di ripetere le bugie della politica. Evitare di metterle nei titoli, nei lead o nei tweet. Perché è proprio questa amplificazione che dà loro potere”.

BUGIARDI FINO A PROVA CONTRARIA – A concludere il discorso, l’intervento della sociologa del Ciac Chiara Marchetti, che ha riguardato la difficoltà da parte dei rifugiati nel raccontare la propria storia e il modo in cui vengono percepiti nel nostro paese, gli studi mostrano come “l’italia passi dal rancore alla cattiveria. I più incattiviti sono le fasce fragili e deboli, come precari o disoccupati, perchè sono coloro che possono vedere negli stranieri una minaccia”. Coloro che migrano per ragioni economiche in un certo senso ci somigliano, sono lavoratori che vogliono avere accesso alle risorse e migliorare le loro condizioni di vita. I rifugiati, invece, scappano dalla guerra. Non ci assomigliano, quindi si sospetta sempre che imbroglino, che cerchino di nascondere dei dettagli per ottenere una protezione che non meritano. Di conseguenza, si cerca in maniera quasi ossessiva di sapere tutti i dettagli, si vogliono vedere le ferite, i segni delle torture. “I rifugiati devono dimostrare di essere onesti, vogliamo le prove della persecuzione“. Questa diffidenza è data anche dal fatto che molto spesso non sanno spiegare il motivo per cui erano perseguitati nel loro Paese. Vorremmo sapere tutti i dettagli, ma spesso nemmeno loro li comprendono: molto spesso semplicemente nei loro paesi è la normalità, non c’è un motivo specifico.

di Lara Boreri e Matteo Cultrera

 

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