Perché il termine “femminicidio” è necessario?

GENOVA, UCCIDE LA COMPAGNA CON UN COLTELLO DA CUCINA, MA È CONDANNATO CON L'ATTENUANTE DEL "RISENTIMENTO": PER L'UOMO 16 E NON 30 ANNI DI CARCERE

Se gli hai risposto con un tono di voce più elevato del suo, se intendi lasciarlo, se non lo ami più, se lo rifiuti, se sei confusa, sei tu che te la sei cercata. Anche la morte.

Non è il resoconto di una chiacchierata al bar, purtroppo, ma ciò che ci suggeriscono le sentenze di recenti casi di femminicidio in Italia. Dopo quella pronunciata dalla Corte d’Appello di Bologna in cui una “tempesta emotiva” sarebbe bastata a far dimezzare la pena stabilita in primo grado per l’uomo che aveva ucciso la sua ex compagna, le polemiche si accendono in questi giorni per la tragedia ligure datata aprile 2018.

Javier Napoleon Pareja Gamboa è un uomo di origini ecuadoriane di 52 anni che ha ucciso con un coltello da cucina la compagna Jenny Angela Coello Reyes, 46 anni, nel loro appartamento di Rivarolo. Sconterà solo 16 anni di carcere, grazie alla giudice, Silvia Carpanini, che lo scorso dicembre ha accolto le tesi della difesa secondo cui l’uomo avrebbe agito poiché “illuso e disilluso nello stesso tempo”. La giudice ha concesso le attenuanti generiche e ha applicato lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato.

Il caso è tornato alla ribalta da qualche settimana, quando diversi giornali hanno riportato estratti della sentenza in cui si legge che Gamboa “non ha semplicemente agito sotto la spinta della gelosia, ma di un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, il tutto acuito dal comportamento sempre più ambiguo di Angela”.

Perché Angela, è vero, aveva un amante. Affermava di volerlo lasciare per proseguire la relazione col suo compagno, ma al tempo stesso di non riuscire a concretizzare la decisione. Questo pare sia bastato per attribuire alla donna parte della responsabilità della sua morte. “Il contesto in cui il gesto si colloca vale a connotare l’azione, in un’ipotetica scala di gravità, su un gradino più basso rispetto ad altre”, afferma la Carpanini, sottraendo un po’ di colpa all’omicida per elargirla cortesemente alla vittima, morta. Il contesto messo in piedi da Angela ha insomma, per la giudice, se non legittimato, reso meno grave l’omicidio.

Il paradosso è che in questa vicenda sia proprio una donna a cadere nel tranello: tranello, sì, perché il contesto in cui l’uomo ha agito non è un’attenuante, ma, al contrario, un’aggravante. Angela non è solo stata uccisa da un uomo, è stata uccisa da un compagno geloso, deluso, risentito, che è andato su tutte le furie per aver perso il controllo del suo oggetto. Se la coscienza collettiva si spinge a giustificare in parte un gesto di questa portata, non è sulla scelleratezza dell’uomo che ci si deve interrogare, ma sul bagaglio culturale che ci portiamo dietro, sugli strascichi dell’ideologia di matrice patriarcale e sull’esistenza, ancora troppo forte, di diseguaglianze di potere tra uomini e donne.

L’avvocato della famiglia della donna, Giuseppe Maria Gallo, ha commentato dicendo che “con questa motivazione è stato riesumato il delitto d’onore”. È infatti di onore calpestato e di orgoglio maschile ferito che si parla. Cosa si sarebbe detto di una donna che uccide il suo compagno perché tradita, ferita e illusa? Si sarebbe parlato di attenuante? Si sarebbe pensato, della vittima, che se l’era cercata? No, di certo.

Per questo non è solo opportuno, ma necessario, parlare di femminicidio e non di semplice omicidio. Non è pura sovrabbondanza terminologica, e nemmeno volontà insensata di distinguere dei fenomeni di pari brutalità, ponendoli in una scala gerarchica per trarne vantaggio. Si tratta di buon senso e di capire cosa c’è, piuttosto, all’origine dei reati, quali sono le cause, e perché si tratta di azioni strutturalmente diverse. Perché solo in questo modo, studiando e provando a conoscere davvero la storia di subordinazione all’uomo che la donna si porta dietro da secoli, potremo cambiare le carte in tavola.

Dati alla mano: l’Istat afferma che se gli uomini vengono uccisi soprattutto da sconosciuti in luoghi pubblici, “tra le 123 donne uccise nello scorso anno, otto su dieci conoscevano il proprio assassino e in oltre sette casi su dieci si trattava di un familiare (partner o ex partner nel 44% dei casi).”

A cause diverse, reati diversi, nomi diversi.

di Federica Gernone

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