All’Università incontro tra vittime e colpevoli degli Anni di Piombo

QUANDO L’ODIO SI PUÒ TRASFORMARE IN AMICIZIA. PARLANO LA FIGLIA DI MORO, MILANI, RICCI, BAZZEGA E GLI EX BRIGATISTI BONISOLI E FARANDA

“Mi sto affezionando, mi sento in colpa con papà. Ho detto a mia madre. Lei mi ha risposto: «Somigli proprio a lui». E oggi io e Bonisoli siamo amici”  Giorgio Bazzega. 

Di incontro tra vittime e “carnefici” pentiti si è parlato all’Università di Parma. Martedì 14 maggio presso l’Aula Filosofi dell’Università di Parma si è tenuta la conferenza nazionale dei delegati dei Poli Universitari Penitenziari (CNUPP) della CRUI. Si tratta del secondo della “tre giorni” dedicata all’Università che entra in carcere (e viceversa) con l’obiettivo di mettere al centro dell’attenzione la possibilità di dare a chi sta scontando la propria pena di ricostruire una nuova vita nella società. Il progetto è stato elaborato dall’Istituzione Penale e va avanti dal novembre 2017.

All’incontro, intitolato “La riparazione: giustizia e incontro”, hanno preso parte Agnese Moro, terzogenita dello statista Aldo Moro, sequestrato dalle BR il 16 marzo 1978 e poi ucciso dopo 55 giorni di prigionia; Manlio Milani, che nel maggio del ‘74 perse la moglie Livia nell’attentato di piazza della Loggia a Brescia; Giovanni Ricci, figlio di Domenico, uno dei cinque membri della scorta di Moro uccisi nell’agguato di Via Fani; Franco Bonisoli, ex brigatista che prese parte alla strage di via Fani ed al sequestro del leader democristiano; Giorgio Bazzega, figlio del poliziotto Sergio, ucciso nel 1976 da Walter Alasia durante l’irruzione nella sua abitazione; e Adriana Faranda, ex brigatista, che agì come “postina” il giorno del sequestro di Moro.

Ad accompagnare gli ospiti sono stati la professoressa di Sociologia dei processi culturali, Vincenza Pellegrino, i giornalisti Paolo Grossi e Chiara Cacciani, Lisa Gattini, segretaria generale CGIL Parma e Massimiliano Ravanetti, del gruppo Officine CGIL Parma.

COME “DENTRO UNA GOCCIA D’AMBRA” – L’incontro svoltosi ha messo a confronto, dunque, due tipi completamente diversi di “attori”, chi vittima e chi colpevole, e a vedere una persona che ha sofferto la perdita di un parente dialogare apertamente con colui che ne è stato responsabile, quindi con l’assassino, lascerebbe tutti sorpresi. Moro, Milani, Bazzega e Ricci, invece, sono riusciti a dare grande prova del fatto che non si può vivere nell’odio, perchè in questo modo non si fa solo del male a sé stessi ma anche alle persone che ci circondano.

Giorgio Bazzega, per esempio, in una conferenza svoltasi a Reggio Emilia nel 2016, ha apertamente dichiarato: “Io e Franco Bonisoli adesso siamo amici” con tanto di stretta di mano. Un gesto sorprendente, quanto emozionante e che, come lo stesso Bazzega a dichiarato, gli ha cambiato la vita: “Da quel momento, per la prima volta in vita mia, mi sono sentito nel dovere di portare avanti i valori di mio padre, per cui non mi sento più come una vittima, fino ad un certo punto, perché mi sento forte di questa cosa. Naturalmente all’inizio non è stato facile perché ero arrabbiato, ma le parole di mia madre mi hanno dato la spinta per intraprendere questo percorso”.

Riuscire a vincere l’odio, soprattutto verso un assassino, richiede infatti molto tempo e soprattutto tanto aiuto. Forse per qualcuno vuol dire anche andare contro i propri principi. La prima a prendere la parola è stata Agnese Moro: “Onestamente la parola ‘perdono’ non è mai venuta fuori, non si tratta di buoni sentimenti, di ‘persone buone’ che incontrano ‘persone cattive’, ma di esseri umani che hanno vissuto tragedie e di percorsi, gli uni diversi dagli altri ma con lo stesso fine. Io questo percorso l’ho cominciato nel 2010, quindi solo pochi anni fa. Dopo la morte di mio padre ho vissuto dentro una ‘goccia d’ambra’, perché non potevo comunicare con l’esterno, ero prigioniera dei miei sentimenti e non avevo nemmeno voglia di guardare quello che mi circondava”.  La figlia dell’ex leader della DC, ogni giorno, riviveva quei momenti di dolore.

Uscire da questa ‘goccia d’ambra’ era ormai diventato quasi impossibile, ma fortunatamente la Moro ha potuto contare su persone che le sono state accanto e che, col tempo, l’hanno aiutata a capire che questa sua chiusura in sé stessa danneggiava non solo a lei, ma anche la sua famiglia: “Non si può uscire dalla ‘goccia d’ambra’ da soli. Ti deve sempre venire incontro qualcuno, ben sapendo che così si sta prendendo una grande responsabilità, e questo gruppo di vittime ed ex membri della lotta armata mi hanno proposto di entrare a farne parte. Proposta che all’inizio ho rifiutato, ma piano piano ci ho ripensato. Per uscire da questa ‘goccia d’ambra’ ho speso tanto tempo e tantissime energie”.

Anche Manlio Milano ha voluto sottolineare l’importanza di entrare a fare parte di questo gruppo, importanza che oggi è ancora più evidente davanti ad un paese diviso e dilaniato: “Io non parlo tanto di riconciliazione, quanto di ricomposizione, perché qui stiamo parlando di rincontrarsi dopo aver pensato alle proprie storie e alle proprie vicende. Quindi penso che attraverso questo percorso è possibile recuperare quella fiducia nell’uomo e quella possibilità che possa cambiare.”

“Quando mi sono incontrato con il gruppo per la prima volta, ho trovato persone che portavano delle croci più pesanti della mia – ha affermato Giovanni Ricci, che all’epoca dell’agguato di Via Fani aveva solo 12 anni – Devo dire loro grazie, perché mi hanno dato la dignità di rivivere mio padre e la forza di andare avanti”.

 C’E’ QUALCOSA OLTRE LE SBARRE? Entrato a fare parte delle Brigate Rosse nel 1977 con il nome di battaglia ‘Luigi’, Franco Bonisoli prese effettivamente parte all’agguato di Via Fani, travestito da aviere, insieme a Valerio Monucci, Raffaele Fiore e Prospero Gallinari, pur non essendo molto pratico in tecniche di arma da fuoco. La sua fuga durò fino al 1 ottobre 1978, quando venne arrestato insieme ad altri compagni nel noto covo terrorista di via Montenevoso a Milano. Viene condannato a 4 ergastoli durante il processo Moro – Uno del 24 gennaio 1983.

Durante gli anni passati in prigione Bonisoli si allontana completamente dagli ideali della lotta armata, iniziando un percorso di cambiamento totale. Lo stesso ex brigadiere ha dichiarato che stava combattendo per una causa che lo avrebbe portato o all’arresto o alla morte sul “campo di battaglia”, e i primi anni di penitenza trascorsi nel carcere di Nuoro gli sono stati utili per rivedere le sue azioni e capirne le conseguenze, anche se ormai viveva tutti i giorni con l’animo a pezzi. Non a caso decide di iniziare lo sciopero della fame.

Il primo incontro con le vittime avviene durante gli anni in carcere e, dopo la definitiva scarcerazione nel 2001, Bonisoli decide di prenderne pienamente parte: “Questo gruppo per me è come una seconda vita. Ho avuto la fortuna di riuscire a guardare con distacco quella esperienza, perché questo allontanamento da quella vita di violenza è stato l’inizio di una vita nuova. L’incontro con queste persone ha dato un senso profondo alla mia esistenza, considerando poi che io non avrei mai immaginato nella possibilità di riconoscere la negatività di certe scelte e la positività di riaprirsi senza nostalgie e giustificazioni”.

Naturalmente il primo impatto con il gruppo non è stato semplice: Bonisoli si trovava di fronte a persone che avevano sofferto la perdita di un parente per mano sua, o meglio, per un ideale del tutto insensato. L’ex terrorista, infatti, ha apertamente dichiarato che per integrarsi ha avuto bisogno di molto coraggio, ma alla fine è riuscito a dire “sì, provo a misurarmi”.“Quando iniziai a rivedere quello che ho fatto, – spiega Bonisoli – il mio primo pensiero era che in questo modo stavo tradendo i miei compagni, ero prigioniero del dovere di seguire quel piccolo collettivo, anche dietro le sbarre. Fare parte di questo gruppo è stato per me un lavoro di rivisitazione ed oggi io mi sento una persona nuova, che ha ricostruito una vita nuova. Io mi ritengo uno sconfitto – continua Bonisoli – non perché alla fine la lotta armata ha fallito, ma sconfitto sul piano umano, perché ho abbracciato quei principi che mi hanno portato nel giro della violenza, nel quale ho spinto altri miei compagni, alcuni dei quali sono anche morti. Questo senso di colpa l’ho portato per anni”.

“Quando vivevo nel campo della violenza io desideravo che questo mio servizio fosse reso pubblico – ha dichiarato Adriana Faranda – perché sbagliando molte volte, soprattutto nella scelta della lotta armata, io sono sempre stata rivolta a sostenere quello che mi sembrava giusto. In questo caso mi sembrava giusta la profondità di questo percorso ed il messaggio che si porta dietro: il valore del dialogo, la ricerca continua di soluzioni differenti che non sia l’esclusione di una possibilità di confronto“.

QUEL 12 DICEMBRE ’69 – E’ da molti storici ritenuta la data in cui ebbe inizio quel periodo nero che la storia della cronaca italiana ricorda come Anni di Piombo. Quel giorno, nel centro di Milano presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura, una forte esplosione causò 17 morti e 88 feriti, e fu solo l’inizio di una lunga serie di stragi: più di 140, tra cui quella di Gioia Tauro (6 morti e 66 feriti), Peteano a Gorizia (3 morti e 2 feriti), Questura di Milano (4 morti e 52 feriti), l’esplosione a piazza della Loggia a Brescia (8 morti e 102 feriti), la strage dell’Italicus (12 morti e 105 feriti), ma soprattutto la bomba esplosa alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti e oltre 200 feriti).

Ma l’evento che segnò profondamente il secondo dopoguerra italiano fu il caso Aldo Moro. Era la mattina del 16 marzo 1978, poco prima delle 9.00, quando lo statista uscì di casa per dirigersi verso la Camera dei deputati per la dichiarazione del nuovo governo Andreotti, fissata per le 10.00, accompagnato dai cinque della sua scorta a bordo di una Fiat 130 berlina, non blindata. Alle 9.00, in via Mario Fani, l’auto con a bordo Moro e quella della scorta furono bloccate da terroristi che immediatamente aprirono il fuoco: Domenico Ricci (42 anni), Oreste Leonardi (52 anni) e i 24 enni Giulio Rivera e Raffaele Iozzino morirono sul colpo. Francesco Zizzi (30 anni), rimasto gravemente ferito, morirà alle 12.36 presso il Policlinico Gemelli per collasso cardiocircolatorio da shock emorragico. Aldo Moro venne preso dai brigatisti che subito si diedero alla fuga facendo perdere qualsiasi traccia. Lo Stato italiano, nel corso dei 55 giorni di prigionia, dimostrò tutta la sua debolezza nell’affrontare quella ormai evidente crisi resa ancora più profonda dal sequestro dell’ex leader della DC, il cui corpo verrà poi ritrovato il 9 maggio dentro una Renault 4 rossa in Via Caetani.

Lo Stato riuscirà a sconfiggere le BR senza ricorrere a leggi di emergenza e senza mediazioni politiche, ma istituendo la legge sui pentiti e i dissociati. Furono avviati regolari processi, con la presenza di avvocati in difesa dei brigatisti e la previsione dei gradi di appello. I brigatisti rifiutarono la difesa e il processo, dichiarandosi prigionieri politici e chiedendo il diritto di asilo. Mario Moretti, il probabile esecutore di Moro, dichiarò che gran parte delle loro aspettative non ebbe successo, e che quell’esperienza si era ormai esaurita e non si sarebbe mai più ripetuta.

di Mattia Celio

 

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