Atti d’amore per Parma

I POETI, GLI SCRITTORI, E I CANTAUTORI DI PARMA PARLANO DEL LORO AMORE PER LA CITTA', CON I LORO VERSI MIGLIORI. BEGHE', MAZZOLI, ROSIGNOLI, ARIANO, LA MONICA, CAMATTINI, SILVA, BARONI, MICCIA, NARDOZZA, PUGLIA, CATTABIANI, PADOVANI, QUINTAVALLA

Parafrasando Venditti, Parma non si discute, si ama. Abbiamo chiesto ai poeti, ai cantautori, agli scrittori parmigiani, sia che vi risiedano tuttora o che se ne siano allontanati da molto tempo, di descriverci cosa amano della loro città.
Cogliamo fior da fiore.

“Della mia città amo i bordi, quello che sta fuori dal giro della circonvallazione interna. Della mia città mi piace Via Doberdò, per il suo andamento sinuoso che s’incunea sotto i piloni dell’alta velocità per Suzzara e la sontuosa desolazione estiva dei parcheggi delle scuole di Via Lazio, della mia città mi piace la vecchietta che raccoglie le cartacce lungo la massicciata della ferrovia di via Toscana, della mia città mi piace il Beluga, un cetaceo lampadato, che gira con a fianco una manta siberiana ed offre agli amici del bar caviale di seconda e flute di malvasia di candia, della mia città mi piacciono le fredde luci al led dei parcheggi scambiatori, della mia città mi piace la tauromachia alla rotonda di via Mantova. Della mia città mi piace la serale terra di nessuno, il limite slabbrato dei quartieri artigianali, della mia città mi piace il silicone annerito degli orti sociali. Della mia città mi piaceva la nebbia buona, quando c’era, che rendeva tutto un po’ più lasso, rallentava i ritmi, calmava l’ansito del respiro, impastava l’aria ferma della provincia con l’illusione di essere una capitale europea.” Daniele Beghé (1963), ult. op. ‘Quindici quadri di quartiere e altri versi’, Consulta Librieprogetti, Reggio Emilia, 2018.

“Un luogo che amo e rivivo: mi vedo in un giorno pieno di sole nella Piazza della Steccata bere alla fontana del Parmigianino. Poi passeggio nella canicola del primo pomeriggio quando non c’è quasi nessuno, circondato dal giallo Parma dei palazzi del centro. Come spesso accade per le cose che davvero contano nella propria vita, ho sempre avuto un rapporto di amore e di odio con Parma. Un legame viscerale ed edipico allo stesso tempo; una reverenza per lei, un bisogno di riconoscerla come mia città dell’infanzia e di formazione e un’esigenza di sfuggirla per uscire dalle strette convenzioni del provincialismo e per crescere nel mondo e con il mondo. Ora che sono da molti anni cittadino inglese, dopo aver studiato, vissuto, lavorato, insegnato prima a Londra e poi a Cambridge, sento Parma come un luogo esotico e intimo. Un posto dove non appartengo, ma di cui conosco i segreti e gli antefatti. Una città dove posso sentirmi straniero ma anche cittadino. Uno spazio nel tempo dove posso “fare il pieno di nostalgia”. Quello che amo di Parma è multiplo e vario: dai caffè alle strade, dalle piazze ai parchi. Ma se dovessi scegliere ed essere più specifico nominerei due cose: la prima cosa è la voglia e l’esigenza di Parma di essere sempre alla ricerca di cultura, dall’opera del teatro regio alla gastronomia; dalla sua storia di partigiani nella resistenza alle sue voci letterarie, sia quelle nuove che quelle consolidate. Il bello di Parma – nel bene e nel male – sta nel modo in cui affronta il proprio complesso di inferiorità. La seconda cosa – e forse più importante per me – è quella del patrimonio linguistico ed etnico che con il parmigiano rende Parma culturalmente parte di un continuum che la collega al catalano, al francese, al provenzale. Mi rende felice il fatto che Parma e il suo idioma – quello dei miei avi – mi possa avvicinare alla cultura dei troubadours che hanno creato Arnaut Daniel (“il miglior fabbro”) e di conseguenza mi riporti a Dante e Ezra Pound e TS Eliot, creando una connessione tra spazio e tempo che idealmente (per me) passa per Parma. Senza questo sotto-strato linguistico che Parma mi ha offerto non avrei potuto assaporare gli exploit dei meravigliosi e intriganti monologhi istrionici della koinè che usava magistralmente Dario Fo.” Max Mazzoli (1963), ult. op. ‘Oltre Questi Luoghi (Spazio e Tempo di un Luogo Presente)’/ ‘Beyond These Places (Space and Time of a Present Place)’, Edizione bilingue, Book Editore, Ferrara, Bologna, Milano, 2014.

“Parma mi piace tanto. Non sono un campanilista, ma mi emoziono quando, qualche rara notte, mi ritrovo da solo in piazza del Duomo e le sue architetture sovrastano i miei sensi. Non sono nemmeno un nostalgico, ma i posti dove son stato bambino mi mettono malinconia. Io ero bambino nei selvaggi anni ’80. Vivevo in quartiere Molinetto, pascolavo tra la parrocchia e i campetti di Via Argonne. Oggi si parla molto di spaccio, come se un tempo non esistesse; invece già allora c’era eccome. Girava voce che un bambino, giocando tra i cespugli del cortile della scuola, si fosse punto con una siringa appesa a un ramo e avesse preso l’epatite. Ai campetti si trovavano sempre le siringhe in terra. A volte, frugando nei buchi di un albero su cui ci arrampicavamo, io e i miei amici trovavamo cucchiai bruciacchiati e coltelli da cucina. E poi li usavamo per giocare. Il mondo non era più puro né meno pericoloso. Di Parma mi piace l’Oltretorrente. Vivo proprio di fronte all’Ospedale Vecchio, e tutti i giorni quando mi sveglio (anzi, quando mi svegliano le mie gatte) è la prima cosa che vedo dalla mia finestra. Non ho un balcone né un giardino, ma ho un intero quartiere che non me li fa rimpiangere.” Rocco Rosignoli (1982), ult. cd ‘Tutto si dimentica’, Sophionki Records, Parma, 2019; ult. op. ‘Professione Confusa’, editrice Il Foglio, Piombino, 2018.

“Di Parma amo il profumo dei tigli, delle siepi fiorite in primavera, del glicine quando i viali alberati si riempiono di colori e mutano con le stagioni. Sono rapito dall’ombra dei suoi borghetti in estate, dalle bellissime chiese che rivedo continuamente quando entro e sento il profumo dell’incenso ed echi delle sue antiche storie: il Duomo con la cupola affrescata dal Correggio, San Giovanni coi suoi chiostri, La Steccata e il Parmigianino, l’Annunziata con il chiostro, Sant’Antonio in Via Repubblica con la sua doppia volta del soffitto. Amo il profumo della Carciofa ancora calda quando passo davanti a Pepèn in Vicolo Sant’Ambrogio e l’aroma di torta fritta che si emana dalle tante trattorie. La notte di San Giovanni coi tavolini all’aperto nelle strade e davanti alle case dove si gustano tortelli d’erbetta e si attende la rugiada. Amo l’Oltretorrente, Piazzale Picelli, Santa Maria del Quartiere e il torrente gonfio di acqua in autunno chiamato affettuosamente, ma anche con un po’ di timore Parma Voladora. Adoro entrare nelle librerie di Parma alla ricerca di nuovi libri di poesia e magari incontrare poeti, scrittori, amici con cui discorrere poi davanti ad un bicchiere di vino in qualche osteria ancora aperta.” Luca Ariano (1978), ult. op. ‘Contratto a termine’, Qudu, Bologna, 2018.

“Di Parma mi piace soprattutto la compostezza. Quella quiete musicale che attraversa piazze e borghi spandendo nell’aria note di sobrietà. Amo anche quel vago senso di leggerezza, misto a pudore, che traspare dalle espressioni dei suoi abitanti. Naturalmente – e non potrebbe essere altrimenti – apprezzo anche il cibo, che ti obbliga ogni giorno a fare i conti con la bilancia. Nonostante sia cambiata molto in questi anni, Parma rimane una città a misura d’uomo. Un posto senza tempo, baciato dal destino. Il luogo ideale per vivere. Accarezzando i ricordi e porgendo l’altra guancia alla nostalgia.” Renato La Monica (1958), ult. op. ‘Così è se Vip…are, cinquanta mini-biografie satiriche non autorizzate di altrettanti Vip. O presunti tali’, autoprodotto.

“Come professionista del pessimismo – molti cantautori lo sono – faccio prima a dire cosa amo nonostante tutto. Non mi piace abbandonarmi alle “romanticherie” soprattutto se l’argomento è serio come la “mia” città. Amo i panini di * anche se non sempre * mi fa lo scontrino fiscale – e io amo moltissimo gli scontrini fiscali e amo ancora di più ciò che lo stato può fare con le tasse ricavate da essi… ma gli scontrini fiscali non sono una peculiarità della mia città-. Amo guardare il Battistero con la sua storia scritta sui suoi muri longilinei e muti e la crudele conta dei buoni e dei cattivi sul lunotto di oriente del giudizio universale (se non è il lunotto di oriente mi perdonerete perché non me lo ricordo e non controllerò sul web per far vedere che lo so). Non amo molto la “parmigianità ruvida”, lo “sgruso” che se sa che sei bravo (a fare una cosa qualsiasi) ma si sente in dovere di dirti a denti stretti – magari in dialetto – quello che hai sbagliato o quanto sono bravi lui o il suo amico a far la stessa cosa. Amo i tortelli anche se dentro hanno un cuore verde e di questi tempi il verde proprio non mi piace. Amo vedere la mia città popolarsi di tutta la gente del mondo che potrebbe insegnare molto a quelli che vorrebbero respingerli e che non hanno mai viaggiato, mai rischiato di morire per mare, mai patito tormenti fisici o la fame… amo chi non ama troppo Giuseppe Verdi anche se devo ammettere che amo l’Opera – tutta – e mi commuove. Amo il verso che tutto riassume nell’impossibilità di amare “Odi et amo…”. Francesco Camattini (1969), ult. cd ‘Solo Vero Sentire’, Ogg Time Records, Roma, 2015.

“Di questa città, la bellezza produce il giallo e i borghi, che restano nel silenzio durante l’intontimento estivo quando gli anziani smettono di esibirsi in canottiera sulle biciclette preferendo stare dietro le porte fresche delle case o ai tavoli dei bar, dove con larga voce parmigiana commentano le pagine sportive della Gazzetta. Qui la bellezza è lunga e indossa uno strano abito elegante che ha la forma e il respiro della gente cittadina: come chi la schiena poggia contro il legno delle panchine, e schiaccia in bocca una crosta di pane tolta dalla spesa, o le coppie di amanti smarriti per i vicoli intorno al Duomo. C’è bellezza persino nei ragazzi fastidiosi mentre gridano arroganti, dichiarandosi ospiti provvisori di questa città e delle sue case morte. La bellezza, qua, è la notte, con la sua sfilata di luci per le strade, gli occhi ardenti delle finestre dilatate dentro la ricchezza dei palazzi o le biciclette scassate e rugginose che si appoggiano una all’altra, la notte dove tutto pare provvisorio e nella terra dei miei pensieri, in fondo, la odio questa città, perché Ercole non abbraccia Anteo ma lo stringe e soffoca senza lasciarlo andare. La odio, questa città. Perché, dove mi aggiro, tanta bellezza mi stringe: gli ho promesso fedeltà e sono incapace di lasciarla andare.” Alessandro Silva (1976), ult. op. ‘L’adatto vocabolario di ogni specie’, Pietre Vive, Locorotondo, 2016.

“Parma è la mia città, non saprei vivere in un altro luogo. Ho 66 anni e radici profonde qui. Sono nato in borgo del Correggio, a pochi passi dalla chiesa di San Giovanni. Il centro storico e artistico di Parma fa parte del mio DNA esistenziale; spesso, preferibilmente in bicicletta, vado in piazza Duomo, anzi è la bici che mi guida lì come se avesse ormai memorizzato il percorso. Ai primi caldi vado volentieri a sedermi su una panchina della Piazza per gustarmi un gelato e  guardare il Duomo, sulla cui facciata si stampano per un attimo fuggevole le ombre dei rondoni in volo. Se giro appena lo sguardo vedo il Battistero dell’Antelami, un autentico capolavoro. Nei dintorni due posti impedibili: la Camera di San Paolo affrescata dal Correggio e il Teatro Farnese con la Pinacoteca. Il torrente attraversa la città, le dona fascino; la città è più bella quando l’acqua scorre sotto i ponti che collegano l’Oltretorrente e il centro storico. Quando il torrente si prosciuga anche la faccia di Parma si avvizzisce. Parma teme il caldo asfissiante, l’afa, la luce abbacinante. Quale volto ha Parma? Ne sceglierei due: Verdi e la Schiava Turca del Parmigianino. Come dice Gian Carlo Conti, uno dei tanti poeti parmigiani da continuare a leggere e apprezzare, il profumo di Parma è quello dei tigli: “I tigli / il profumo di casa mia!”.” Giancarlo Baroni (1953), ult. op. ‘Le anime di Marco Polo’, Book Editore, Ro Ferrarese, 2015.

“Dino/ nella valle convivono castelli /e salumifici ognuno con la/ sua arte, sono a guardia del corpo degli/ adoratori del maiale, più/ giù nella pianura osservi la cappa/ fosforica dello smog, sei felice/ che qui in alto i tuoi prosciutti stagionino/ all’aria pura, i prosciutti respirano/ pensano possiedono un cuore un’anima,/ sono buoni persino più degli uomini.”
“Rino/ il tuo tempo s’impreziosisce tra/ strolghini e coppe, il culatello è/ la massima espressione del tuo afflato/ lirico, il prosciutto crudo e il salame/ sono i tuoi giochi di società, il tutto/ diluito dal lambrusco, il maiale/ è l’unico Dio che ti è rimasto/ non puoi tradirlo, ma vieni tentato/ anche da anolini e tortelli per/ non citare il parmigiano reggiano,/ tu sei un politeista inconsapevole.” Michele Miccia (1959), ult.op. ‘Ciclo dell’acqua-La parte del ristagno’, L’Arcolaio, Forlì, 2019.

“A questa città devo tutto. Ho mosso i primi passi da cantautore e cresciuto in tutto e per tutto. Amo la cucina parmigiana, cantare in mezzo a questa bella gente e visitare le bellezze di cui Parma è ricca.” “Da quando ti ho incontrata/ la vita mia è cambiata/ non sento piú la ruggine dentro di me/ ma sento quelle cose/ che mi fanno gridare:/ “Ora è il tempo di sperare.” / Da quando ti ho incontrata/ la vita mia è rinata/ non sento piú la polvere dentro di me,/ ma sento quelle cose che mi fanno gridare insieme a te/ potrò volare./ Riparto da zero , riparto da te/ riparto da zero e non c’è un perché,/ riparto da zero , riparto da qui/ riparto da zero riparto così, e riparto da qui./ Da quando ti ho incontrata/ la vita mia è ubriaca/ non sento piú la sporco che vagava in me,/ ma sento quelle cose che mi fanno gridare:/ “Ora è il tempo di lottare”./ Da quando ti ho incontrata/ la vita mia è in vacanza,/ è come fosse sempre estate dentro di me/ ma sento quelle cose/ che mi fanno gridare:/ “Forse è il tempo di lottare.”/ Riparto da zero , riparto da te/ riparto da zero e non c’è un perché/ riparto da zero, riparto da qui/ riparto da zero riparto così, e riparto da qui./ Non voglio alternative, sei tu la mia prigione/ l’unica cosa per cui io possa lottare/ non cerco alternative o strade secondarie/ l’unica strada che io vedo è già solare./ Riparto da zero , riparto da te/ riparto da zero e non c’è un perché/ Riparto da zero , riparto da qui/ riparto da zero riparto così, e riparto da qui” (Riparto da zero). Alessandro Nardozza (1991), ult. cd ‘Tutto ad un tratto’, 2016, autoprodotto.

“Entrare nella chiesa della Steccata quando un riflesso di sole illumina gli affreschi della cupola, la musica dell’organo ti corre incontro e ogni personaggio ogni tunica ogni nuvola si muove impercettibilmente è per me sempre una sorpresa e un momento di felicità. In Pinacoteca  sedersi davanti al profilo della fanciulla dagli occhi abbassati, disegnata da Leonardo. Guardarla a lungo e sussurrarle:  ”Alza gli occhi, siamo nel duemila, non aver paura”.  Così ho fatto un mese fa. Dopo alcuni minuti di silenzio, una signora a mezza voce: ”Ho avuto i brividi, nemmeno La Gioconda a Parigi mi ha dato un’emozione così. Io vengo da Vinci e non sapevo… ” Poi tutti siamo rimasti, a lungo, a osservare quegli occhi che restavano veramente sempre abbassati.” Laura Chiozza Puglia (1939), ult. op.  Il Labirinto, Diabasis, Parma, 2017.

“Non ho mai dedicato a Parma una canzone in modo esplicito, ma le sue strade, i suoi scorci da cartolina ottocentesca, la sua atmosfera come di perenne teatro con i suoi personaggi in scena (intesi come figure mitiche del quotidiano: uno fra tutti, il “salutatore seriale” Dino) popolano da sempre il mio immaginario. Se dovessi riassumere ciò che amo di Parma in un’immagine, direi che amo gli aperitivi estivi in strada D’Azeglio, con i filobus che scorrono a pochi centimetri dai tavolini dei bar e l’aria vivace degli studenti universitari che hanno appena chiuso i libri, mentre il tramonto accende le quinte in fondo alla via, verso piazzale Santa Croce.” Ugo Cattabiani (1977), ult. cd Malaccetto, Rigoletto Records, Parma, 2016.

“Di Parma amo la sua attitudine alla cultura, nelle varie forme di questa infinita parola: la trovi nei suoi luoghi storici, nella sua capacità di essere “capitale” (tra poco tornerà ad esserlo per un anno) …la trovi nella cura per la bellezza, accogliente ma selettiva, raffinata e popolare, mai troppo rigorosa… la trovi nelle osterie, come a stemperare e dare valore alla socialità… convivere con l’ironia è la più grande lezione che Parma sa dare ai suoi figli stretti, o a quelli acquisiti, come me, colornese e mediopadano, che non vuole legarsi troppo alla città “dentro le mura”. Eppure ho dedicato una canzone all’Oltretorrente – La ballata veloce della Parma (Astrofolk, 2007) – e non potrei pensare al mio essere poeta senza un riconoscimento all’aria che si respira, agli amici poeti e critici parmigiani, con cui dialogo e da cui ho le migliori lezioni sulla mia poetica. Credo che su questo avesse ragione Bevilacqua nella sua definizione “pop” di “città in amore”. La chiosa in prosa della mia ultima raccolta,Il Manutentore, ne parla così: “In questa città, dall’aria meravigliosa / Dove la musica ha un senso / Che si srotola, dalle finestre / E nessuno può permettersi / La noia delle ginestre”.” Alberto Padovani (1970), ult. op. Il manutentore, Zona Editrice, Genova, 2017.

“Quante stagioni si contano, dell’amore, nella vita di un individuo, dal suo aprire gli occhi nel venire alla luce al chiuderli per sempre, magari fissando lo stesso dettaglio? Devo pensare alle prime immagini, che ci avvolgono e sovrastano: sono sempre una serie di colori odori atmosfere, e paesaggi; per me vengono dalla campagna di san Leonardo come dal fieno estivo, poi si inurberanno quando diventerò cittadina, in via Borghesi, buia e povera fino a via Guicciardini, rinascendo nel verde. E l’aura di Parma? Quand’ è che l’ho riconosciuta, nella sua unicità legandomi a lei con amore viscerale per sempre. Essa è tornata: dopo l’infanzia, dopo le corse spericolate alla Cittadella fino ai miei nove anni, o al Parco Ducale quando al posto dei grilli-tricicli usavamo le piccole bici con rotelline per percorrere la circonferenza del Lago, con l’isolotto dei cigni, e ci sembrava di coprire distanze immense; un aliante non sarebbe bastato a ridare fiato dopo quelle sudate arrampicate al tempietto di Diana. Montagnole o colline, o eravamo noi, piccoli nanetti ?  E quando, dando l’addio a quei luoghi meravigliosi, sono diventata stanziale cittadina, con l’inizio della scuola media, andando a vivere nel centro storico, a lato del Duomo e Battistero.

Dagli anni sessanta abitando in Borgo del Parmigianino al suo numero 8.
 Ma quali le atmosfere che mi erano entrate nel cuore, l’ho scoperto dopo il ritorno, verso i 40 anni con la figlia piccola in braccio, ho percepito cos’era rimasto censurato in questo amore.
Nell’infanzia e adolescenza c’erano state le vallate, gli Appennini e la campagna; i cieli i tramonti i colori invernali o estivi, intravisti dal lungo fiume; poi, nella giovinezza: le passeggiate di notte interminabili, senza movida, poiché tutti eravamo movimento di vita, da barriera Repubblica a via Farini, a via d’Azeglio fino ai confini della città nella sua bella pianta a croce. Ma il fiume, la linea curva guida che direzionava l’amore, la vista, quella non l’ho mai perduta. Una prospettiva.
Appena arrivo da fuori, ecco io seguo la direzione del fiume anche quando agli ultimi ponti si trasforma in savana; ma il senso di camminare intorno ad una sacra église e di tornare ai tempi descritti da Fra Salimbene, io lo ritrovo calpestando le pietre e i silenzi della piazza Duomo: lì mi siedo, e assorbo a braccia spalancate, l’aria nei polmoni che mi prenderà più volte, ad ogni affaccio: dalla visione della Pelota per poi tornare al cicaleccio un po’ per bene delle vasche intorno alla Steccata, o in piazza Garibaldi dove ci sedevamo.
Sui suoi gradini, ad abitare sontuosamente la rivoluzione nominata, i luoghi dove mi formai, nella giovinezza impegnata, e sfrenatamente felice, di utopie e dei primi amori da città lontane, nelle sorellanze vissute, e create, di essere cresciute insieme, più reali e amabili di una casa, o della famiglia. (noi ragazze della Biblioteca delle donne).
Quell’aura è quel colore giallo Parma che circola ovunque, in centro; o in quei cieli che al tramonto raggiungono l’intenso  blu cobalto pieno di stelle, anche oltremare, che scintilla e porta pensieri lievi come colombe.
Parma è amare, io l’ho amata aprendo gli occhi e goduta dal mese settembrino lungo le stagioni della vita. A volte, per crescere, ho dovuto dimenticarla. Questa vita, se è una circonferenza nasce e ritorna qui: ho parlato di lei, la mia madre terra, e dimora che, come in ogni lontananza deve animarsi di ritratti in frame.
L’amore è in azione nelle poesie, ma c’era da sempre come un terzo occhio, una camera vivente che vigila, amante o silenziosa amica, oppure strabordante, che si impone, vuole essere nominata come unica.
Che è gelosa o indifferente, ma che si fa adorare, e se ne può scappare, infatti, dai suoi vezzi gelosi; quell’amore sonnecchia, ma non dorme e non ti lascerà: questo, in fondo ad ogni ambiguità, e’ anche tanto rassicurante.” Maria Pia Quintavalla (1952), ult. op. Quinta vez, Stampa 2009, Azzate, 2018.

di Fabiano Naressi

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