La protesta di Hong Kong spiegata in 6 punti

NON SI ARRESTANO LE MANIFESTAZIONI A HONG KONG CONTRO L'INTERFERENZA CINESE NEGLI AFFARI DELLA CITTÀ.

Dopo 29 settimane di proteste Hong Kong continua a far parlare di sé. Cortei di giovani popolano le strade manifestando contro il Governo cinese, in nome di un futuro migliore rispetto a quello che al momento si prospetta. Oltre 500 mila manifestanti hanno organizzato una rivolta che la polizia, nonostante il duro intervento, non riesce a placare.

1. PERCHÉ PROTESTANO? – One country, two systems è il concetto che conferisce a Hong Kong uno statuto speciale, grazie al quale gode di una parziale autonomia economica, amministrativa e giudiziaria dalla Cina. Le ragioni della sua indipendenza risalgono alla prima Guerra dell’Oppio (1839-42), successivamente alla quale Pechino dovette cedere Hong Kong alla Gran Bretagna. Colonia inglese fino al 1997, fu riconsegnata alla Cina a patto che le venisse riconosciuta una speciale libertà.

Sebbene la città-Stato faccia effettivamente parte della Repubblica Popolare Cinese, ci sono però innumerevoli elementi che farebbero pensare il contrario. Ad esempio, i suoi abitanti hanno una propria squadra olimpica e un proprio inno. Perfino la bandiera è diversa da quella cinese. 

Lo statuto di Hong Kong ha tuttavia valore fino al 2047. Una volta scaduto, Pechino potrà riprendersi il controllo della città. Ma la Cina non sembra intenzionata ad aspettare l’arrivo di quella data per rivendicare i propri diritti sull’isola. Le manifestazioni a cui si assiste oggi sono, pertanto, la risposta hongkonghese all’ingerenza cinese.

Immagine di Flickr – Asia Society

L’attuale protesta è infatti nata in opposizione a un progetto di legge sull’estradizione forzata in Cina. Va considerato che proprio grazie al suo statuto, le autorità cinesi non possono arrestare gli abitanti di Hong Kong. Se la legge sull’estradizione venisse approvata i cittadini hongkonghesi, sospettati di reati gravi, sarebbero estradati nella Cina continentale. Ciò significherebbe essere processati secondo le norme lì vigenti, ma soprattutto essere giudicati da un sistema giudiziario tra i più iniqui e antidemocratici al mondo. In Cina, infatti, è ancora in vigore la pena di morte e la tortura. 

L’approvazione di questa legge rappresenterebbe dunque una grave ingerenza nel sistema giudiziario di Hong Kong. Ecco perché le rassicurazioni della Governatrice Carrie Lam non sono servite a placare le agitazioni degli hongkonghesi che lottano per la sospensione del voto sulla legge di estradizione.

2. CHE COSA CHIEDE CHI MANIFESTA? – Come spiegato da Francesco Radicioni su Radio Radicale, se inizialmente i cittadini di Hong Kong chiedevano la sospensione del progetto di legge e le dimissioni della loro Governatrice, ora si parla di suffragio universale. 

L’attuale legge elettorale di Hong Kong infatti fa sì che l’autonomia dei suoi organi dal governo cinese, sia fittizia. Questo perché dei 70 membri che compongono il Parlamento solo la metà è eletta dal popolo, i restanti da collegi professionali. La stessa Carrie Lam, il capo esecutivo di Hong Kong, non è eletta dai cittadini ma da un comitato elettorale.

Immagine di Flickr – Studio Incendo

Tra le richieste di chi manifesta c’è anche la creazione di un organo indipendente che indaghi l’operato delle forze dell’ordine, particolarmente dure nel reprimere i disordini. La polizia di Hong Kong risponde infatti al proprio governo, la cui leadership è però fedele a Pechino. Infine si chiede l’amnistia per i manifestanti identificati e trattenuti dalle forze dell’ordine. Tra questi spiccano diversi giovani come Joshua Wong e Agnes Chow, fondatori e dirigenti del partito Demosisto, nato nel 2016 dalle ceneri della Protesta degli ombrelli.

Attualmente soltanto una delle richieste è stata accolta. Il 4 settembre, la Governatrice Lam ha annunciato il ritiro ufficiale della legge sull’estradizione in Cina.

3. UNA NUOVA ‘UMBRELLA REVOLUTION’? – La diretta antecedente di questa mobilitazione è la Protesta degli ombrelli del 2014, nata per chiedere elezioni libere nella regione amministrativa. Il nome prende spunto dagli ombrelli utilizzati dai manifestanti per proteggersi dai gas lacrimogeni.

Immagine di Flickr – Studio Incendo

L’allora Primo Ministro inglese David Cameron aveva invano fatto appello alla Cina di rispettare l’indipendenza della regione, ma la risposta di Pechino chiuse ogni possibile mediazione, affermando il proprio primato sugli affari di Hong Kong.

A fare la differenza tra la protesta odierna e quella del 2014, secondo Vox – sito web di notizie e opinioni statunitense – sarebbe la presenza di personaggi di spicco, quali avvocati e politici. Al contempo, si è mobilitato anche il Congresso USA a sostegno dei dimostranti. La Camera ha infatti approvato l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act e il Protect Hong Kong Act. Sebbene il Senato debba ancora esprimersi sulle due leggi la loro approvazione sarebbe un duro affronto al Governo di Xi Jinping. Con il Democracy Act Washington potrebbe decidere di non confermare lo status di partner commerciale privilegiato di cui gode Hong Kong, qualora l’autonomia della città venisse compromessa dalla Cina. Il Protect Hong Kong Act introdurrebbe invece misure per limitare la vendita, al governo di Hong Kong di equipaggiamento militare, come i tear gas.

4. LIBERTY OR DEATH: NEL CUORE DELLA PROTESTA – Libertà o morte é lo slogan della protesta, iniziata il 31 marzo 2019. In un primo momento i manifestanti hanno organizzato cortei pacifici non autorizzati. I filmati che girano sul web documentano giovani in fila per comprare le maschere antigas, catene umane contro la polizia, cittadini che cantano durante le occupazioni, studenti che spengono i fumogeni aiutandosi con i coni stradali. Tra il 12 e il 13 agosto 5 mila persone hanno poi occupato l’aeroporto di Hong Kong. Il sit in voleva attirare l’attenzione internazionale su quanto stava accadendo nella città, ma la manifestazione è stata repressa dalle forze dell’ordine, con un bilancio di circa 40 feriti.

La polizia è intervenuta con decisione sin dalle prime contestazioni, ricorrendo a dure modalità per ristabilire l’ordine: manganelli, proiettili di gomma, gas urticanti e cannoni ad acqua caricati con un colorante blu per poter marchiare chi manifesta. Se individuati, i dimostranti rischiano un anno di prigione o una multa corrispondente a 29 mila euro. Gli hongkonghesi di conseguenza scendono per le strade muniti di elmetti, maschere e occhiali per proteggersi dai tear gas. Inoltre nascondono i volti per difendere la loro identità, su cui il sistema cinese vorrebbe esercitare il controllo. Ancora non è chiaro quando le proteste cesseranno. Fino ad oggi però costanza e determinazione hanno costituito il loro punto di forza.

5. LA CENSURA CINESE – La maggior parte delle testimonianze su quanto accade ad Hong Kong proviene dal web. I social si sono rivelati una fonte preziosa per rimanere aggiornati sulle vicende che interessano la regione.

Immagine di Flickr – Studio Incendo

Non è un caso che nelle scorse settimane alcuni profili social in cui venivano diffuse informazioni sulla situazione a Hong Kong siano stati ‘shadow-bannati’. Inoltre, secondo Wired, Twitter e Facebook sono stati teatro di falsi account cinesi, utilizzati per diffondere fake news e screditare le proteste dei manifestanti.

Non solo. A inizio ottobre Daryl Morey, direttore sportivo degli Houston Rockets (squadra di NBA), ha tweettato:  “Fight for freedom stand with Hong Kong”. Il tweet è stato poi rimosso e sostituito da uno più moderato, in cui Morey riconsiderava l’intera vicenda e la sua stessa opinione. Un innocente cambio di idea? Non esattamente: il ripensamento era stato preceduto dal ritiro degli sponsor cinesi alla squadra e da diverse lamentele dell’NBA che intanto aveva preso le distanze dal tweet di Morey.

Un altro episodio ha visto coinvolta la celebre software house statunitense Blizzard. Un professionista hongkonghese che si occupa del gioco online HearthStone è stato punito con sei mesi di squalifica per aver definito le proteste nelle sua città “la rivoluzione del nostro tempo”. Ma il caso più eclatante è accaduto lo scorso 3 ottobre, quando il Governo cinese ha comprato una pagina sui più grandi quotidiani internazionali. Lo spazio è stato riempito con un comunicato stampa in cui Pechino rassicurava i governi nazionali sullo stato delle agitazioni ad Hong Kong.

 

6. COSA DICONO I CINESI CHE VIVONO A PARMA? – Tentando di sondare l’opinione di giovani cinesi emigrati in Italia e commercianti della zona, la sensazione iniziale è stata quella di scontrarsi con un muro. Non una parola, se non quelle necessarie per sottrarsi alla conversazione. Certi terreni sono però più fertili di altri e alcune persone si sono dimostrate disponibili a chiarire il proprio punto di vista sulla questione di Hong Kong. Nessuno si è espresso a favore della città, né si è allarmato per la scia di violenza nella regione. I cittadini cinesi intervistati hanno detto di avere grande fiducia nell’azione del Governo Xi Jinping. I manifestanti, al contrario, sono percepiti come un elemento pericoloso per la stabilità economica dell’isola. Una preoccupazione che nasce dalla convinzione che non possa esistere una Cina senza un’economia dominante. Nè che possa esistere One country, two systems.

 

Di Greta Reverberi, Francesco Scomazzon e Anna Zappulla

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