Brexit: Should I stay or should I go?

IL TITOLO DELLA FAMOSA CANZONE DEI CLASH RIASSUME LA SITUAZIONE ATTUALE. COSA POSSIAMO ASPETTARCI IN FUTURO?  


“Fare la Brexit è paragonabile a quell’amico che, durante una festa, dice: ‘Va beh, io vado’, ma dopo due ore è sempre lì con un drink in mano e non si toglie dai piedi.” Così Justin Frosini, professore di diritto pubblico comparato nell’Università Bocconi di Milano, nonché uno dei maggiori esperti sull’argomento, ha introdotto il 30 settembre il suo seminario dal titolo ‘Brexit o sovranità del Parlamento? Questo è il dilemma’. L’incontro è stato introdotto dalla professoressa Lucia Scaffardi del Dipartimento di Giurisprudenza, Studi Politici e Internazionali – organizzatore dell’evento – la quale ha subito dichiarato che, solo poche ore prima, un voto parlamentare aveva approvato la proposta di nuove elezioni il 12 dicembre. La domanda cocente è stata: “È ancora possibile una revoca della Brexit?”.

DAL DOPOGUERRA AGLI ANNI ’90 – Al fine di chiarire come si sia arrivati a questo punto, il professore – detentore tra l’altro dalla doppia cittadinanza – decide di partire dalla creazione della CEE (la Comunità Economia Europea) negli anni ’50. “I britannici erano favorevoli alla sua creazione, ma non ne volevano fare parte, perché pensavano ancora all’impero, al Commonwealth. Spesso si dimentica che sia conservatori che laburisti erano d’accordo”. Fino agli anni ’70, ci fu una costante alternanza al potere tra conservatori e laburisti ed entrambi, su molti temi, erano fondamentalmente centristi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il partito più europeista era quello conservatore, attratto soprattutto dal mercato comune (free market). Saranno proprio i conservatori nel 1973, guidati dal primo ministro Edward Heath, a far aderire il Regno Unito alla CEE. Come il docente afferma in un articolo scritto insieme al collega Mark Gilbert: “Non si può negare che l’adesione sia stata un modo per risolvere gravi problemi economici che stavano emergendo negli anni ’60 e nei primi anni ’70: la decolonizzazione era ormai compiuta e il Regno Unito vedeva la Germania, la Francia e anche l’Italia svilupparsi economicamente molto di più”. Già nel 1975 però il nuovo primo ministro laburista Harold Wilson avviò con successo un nuovo negoziato, poiché non contento dei termini con cui l’Inghilterra era entrata nella CEE. Dopo questo Wilson fu costretto a sottoporre l’accordo a un referendum, il primo a livello nazionale nel Regno Unito.

Da qui ha inizio la diatriba tra sovranità del Parlamento e il fare parte di una Comunità Europea. Come sottolinea il professore: a differenza degli italiani che si identificano nella Costituzione, un inglese lo fa nel Parlamento, non avendo il Regno Unito una Costituzione codificata. Basti pensare a Margaret Thatcher che negli anni ’70 era un’europeista convinta, ma divenne euroscettica nel momento in cui si cominciò a parlare di passare da un euromercato comune a una vera e propria Unione Europea”. Tradotto in termini politici, ciò significava una perdita di potere del Parlamento inglese. La maggioranza dei conservatori voleva ratificare il Trattato di Maastricht (con il quale si sarebbe poi formata l’UE nel 1992) e la Thatcher fu così sconfitta in una corsa alla leadership del partito conservatore e rimossa come primo ministro. I suoi sostenitori ritengono quindi la questione europea la causa di quello che definiscono un ‘colpo di stato’ e da quel momento saranno sempre presenti dei parlamentari euroscettici.

IL REFERENDUM DI CAMERON – “Bisogna fare attenzione a non mettere tutto dentro al ‘calderone del populismo’. Non tutti quelli che hanno votato per la Brexit sono populisti, razzisti, xenofobi, e via dicendo” spiega il professor Frosini. Ad esempio c’erano proprio: “gli ‘aficionados’ della signora Thatcher che aspettavano da una vita di votare su questa questione”. Oppure coloro che associarono il referendum del 2016 a David Cameron, suo promotore e primo ministro, alla guida dal 2010 di una coalizione tra conservatori e liberali democratici,  che quindi: “pensavano che fosse un’ottima opportunità per ‘mandarlo a quel paese”. Necessario ora un passo indietro: nel 2014 si tennero le elezioni al Parlamento europeo e, per la prima volta nella storia sia i laburisti che i conservatori furono sconfitti da un altro partito: lo United Kingdom Independence Party di Nigel Farage. Questo aveva tolto punti soprattutto ai conservatori. Cameron, in un discorso al Bloomberg di Londra, disse che erano evidenti le frizioni tra Regno Unito ed Europa, soprattutto in seguito all’approvazione del Trattato di Lisbona – entrato in vigore nel 2009 e che, tra le varie novità, aumentava i poteri del Parlamento europeo – che avvenne senza referendum nel Regno Unito. In quest’occasione disse che se avesse vinto le elezioni avrebbe rinegoziato e poi tenuto un referendum.

Nel 2015 Cameron vinse le elezioni e dovette attuare la promessa, poiché, come sostiene il docente: “nella costituzione non codificata del Regno Unito c’è una convenzione in base alla quale chi vince le elezioni deve dare applicazione al suo programma elettorale”. Se Cameron non avesse mantenuto quanto proposto, Farage l’avrebbe accusato di “aver preso tutti in giro”. Ecco che allora il referendum diventa per il primo ministro una lama a doppio taglio. Ciò spiega il voto in massa in alcune zone del nord dell’Inghilterra, dove sono quasi tutti seggi sicuri per i laburisti ma che comunque hanno votato in maggioranza per la Brexit.

ARRIVA THERESA MAY – Bisogna anche ammettere che: “era evidente che per i remoaners – soprannome dato ai remainers, coloro che volevano restare nell’UE: da moan, lamentarsi –  fondamentalmente il messaggio fosse: l’UE non è un granché, ma è meglio rimanere che uscire”. Data l’ambigua posizione del leader del partito laburista Jeremy Corbyn dopo il referendum, Cameron si dimise e prese il suo posto Theresa May che dovette: “andare a toccare l’articolo 50: ‘Il procedimento di uscita dall’U.E” spiega il professore. Il nuovo primo ministro avrebbe voluto attuare una prerogativa regia a favore del governo, che darebbe al primo ministro il potere di invocare l’articolo 50 senza voto in Parlamento. Ciò venne contestato poiché: “la prerogativa regia ha come limite quello di non modificare le leggi del Parlamento e, in caso di uscita dall’Unione, bisognerà modificarne molte” chiarisce il professore.

Venne fatto ricorso e la May fu costretta a passare dal Parlamento. Nel 2017 chiese nuove elezioni, convinta di ottenere numerosi seggi in più, ma perse la maggioranza assoluta e fu costretta a chiedere l’appoggio del Democratic Unionist Party (unionisti protestanti nord-irlandesi). Dopo lunghe discussioni raggiunse un accordo con Bruxelles e lo sottopose al voto del Parlamento. Dopo una triplice bocciatura si dimise nel giugno 2019.

TORNADO JOHNSON – L’attuale Primo Ministro, senza maggioranza assoluta in Parlamento, è Boris Johnson. Vi è qui un dettaglio, secondo il docente, importante: “Nel caso italiano ci deve essere il voto di fiducia, ma nel Regno Unito la fiducia è presunta: Johnson non ha mai goduto di un voto di fiducia iniziale. La Regina ha l’obbligo costituzionale di nominare come primo ministro colui che guida il partito che ha la maggioranza assoluta o relativa nella Camera dei Comuni”. Tutte le volte che Johnson si è presentato in Parlamento ha quasi sempre perso il voto. Dato che non ci può essere Brexit senza accordo, ha rinunciato all’idea di farlo passare in Parlamento e ora la decisione è andare al voto il 12 dicembre.

Referendum 2016: zone gialle voto a favore del Remain, zone blu voto a favore della Brexit.

FUTURO: COSA ASPETTARSI DALLE ELEZIONI? – “La risposta alla domanda: ‘È possibile bloccare la Brexit? Bloccare l’amico per far sì che rimanga per tutta la festa e non vada più via?’ – si chiede e risponde il prof Frosini – Sì, è possibile. Questo potrebbe avvenire se vincono le forze politiche che sono a favore del Remain, assumendo le proprie responsabilità e revocando l’articolo 50. La seconda ipotesi – pericolosa per giunta – è un secondo referendum”. Il docente crede che entrambi i fronti utilizzeranno la desistenza, ossia: “tra molti collegi ci saranno accordi tra partiti per decidere quale candidato appoggiare”. Così potrà fare Johnson con Farage, lasciando tuttavia spazio al centro, e i liberal-democratici guidati da Jo Swinson invece con i nazionalisti scozzesi.

Diventerà una gara a tre. Tra questi due fronti, il primo per la Brexit e il secondo sotto la guida della leader dei liberal-democratici, si colloca il partito laburista che ha già annunciato in caso di vittoria di voler revocare l’articolo 50, anch’essi per il Remain e che opterebbero per una ‘via di mezzo’ istituendo un altro referendum e lasciando di nuovo la scelta nelle mani del popolo. Inoltre il docente sostiene che, in caso di Brexit: anche l’UE soffrirà. E l’Italia forse più di altri Paesi”.

Ma i giovani, coloro che maggiormente sono coinvolti in questa scelta, cosa hanno fatto? “Molti si sono svegliati il 24 giugno, chiedendosi cosa fosse successo – spiega il professore – mentre loro non avevano avuto voglia di andare a votare. 60enni e 70enni con la nostalgia per l’impero, invece, erano lì in fila per votare. Bisogna augurarsi che questa volta i giovani vadano alle urne – e conclude – Forse tra 10 anni non parleremo più di Regno Unito. In caso di Brexit, probabilmente si scioglierà”. Si ricorda infatti  il referendum del 2014 quando la Scozia decise di non chiedere l’indipendenza principalmente per restare nell’UE. Inoltre, nel referendum del 2016 sia Scozia che Irlanda del Nord votarono per il Remain. E, in tutto questo, c’è chi crede che possa essere meglio una ‘Little Britain’, composto dalla sola Inghilterra.

Le domande ora sono molte: potrebbe esserci un colpo di scena con queste elezioni? Viceversa, sarà davvero la fine per il Regno Unito come lo conosciamo? Soprattutto, per quanto riguarda il breve termine, cosa significa tutto questo per i milioni di stranieri, residenti e non, che assistono a tutto ciò e attendono inermi?

L’unica certezza al momento è che non sarà il tempo a decidere, ma l’eterogeneo e complicato popolo britannico.

 

di Federica Mastromonaco

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