Fare cultura con lo sport: perchè in Italia non avviene?

TRA PENNA E PALLONE NELL'ITALIA DI OGGI. CONFRONTO CON LA REALTA' USA

Lo sport è una ‘malattia’ tipicamente italiana, i cui sintomi si presentano nelle forme più disparate: dagli eccessi degli ultras negli stadi, a quelli delle platee di genitori alle partite domenicali dei figli. Dalle interminabili conversazioni tra amici sul centravanti di turno, alle eternamente discutibili scelte dell’allenatore. Gli eventi sportivi sono prima di tutto un punto di aggregazione culturale, eppure la competizione sportiva non è mai stata considerata meritevole di essere discussa dalla comunità intellettuale. Lo sport in Italia è  piuttosto considerato una sottocultura, un piacevole epilogo utile al dimenticare qualche amara notizia di cronaca o l’arrancare dell’economia.

QUALCOSA STA CAMBIANDO – Esiste però un nuovo approccio narrativo che pare presentare i racconti di sport sotto una nuova ed esaltante prospettiva. Federico Buffa, avvocato di origini milanesi e poi telecronista e storyteller sportivo per Sky, ha recentemente preso parte ad una conferenza dal titolo: “Professione storyteller, come fare cultura con lo sport”, organizzata dall’Università IULM di Milano lo scorso 24 settembre.

I temi toccati  sono molteplici: si spazia dal racconto dell’esperienza personale di Buffa a Sky, all’emancipazione femminile nello sport mondiale, fino al crollo dei tesserati nelle associazioni sportive dilettantistiche. Ma non solo. Il dibattito ha reso evidente l’urgenza di trovare un modo di parlare dello sport ‘all’italiana’, un’operazione possibile attraverso punti di vista diversi ed innovativi. Solo valorizzando chi parla di sport in maniera nuova verrà a crearsi una vera e propria scuola di comunicazione sportiva italiana. “Non perdete la vostra originalità, non uniformatevi agli schemi consolidati” è il messaggio di Federico Buffa agli studenti presenti, molti dei quali sono aspiranti giornalisti. Il cinema italiano, esempio spesso citato dal telecronista, non si è occupato molto di sport – se non in maniera parodistica. Eppure di storie da raccontare ce ne sarebbero eccome. Si pensi al ‘Giro della libertà’ del 1946, alle storie dei disertori dei Balilla durante il ventennio fascista o, perchè no, al Milan di Sacchi e alla miracolosa finale della Enichem Livorno del 1989 contro il colosso della Philips Milano.

Tra i numerosi spunti emersi nella discussione, spicca un interessante confronto col mondo americano. I relatori, abili nell’associare allo sport gli universi più disparati, citano anche Jorge Luis Borges. Buffa illustra la visione dello scrittore argentino, che descrisse il mondo americano come una società spontaneamente e naturalmente votata allo sport. Gli USA non dispongono di radici storiche profonde quanto quelle europee, escludendo le grandi narrazioni degli indiani d’America. Hanno allora deciso di cercarle nei racconti della loro contemporaneità: quelli cinematografici e, naturalmente, quelli sportivi facendone una caratteristica fondante del loro modo di vivere.

Fare sport negli USA ‘fa curriculum’, proprio per le qualità che, a dir loro,  si sviluppano giocando: il lavoro di squadra, la disciplina, la leadership, concetti ancor più americani dell’apple pie. Ogni high school americana può vantare una propria squadra scolastica e, in certi casi, l’affluenza del pubblico alle partite liceali sfiora numeri che farebbero felici alcune leghe professionistiche italiane. Provate a pensare ad uno scenario simile in Italia: 15.000 persone ad una partita tra sedicenni. Assurdo. La provocazione di Buffa a riguardo è di grande interesse: in sintesi, dice, se su un curriculum italiano si citano le attività sportive praticate, la percezione è sempre che siano informazioni superflue. Negli USA, invece, l’aver giocato a football all’università può fare la differenza anche nel mondo del lavoro, apparentemente così lontano da quello sportivo. E ancora, sono rari in Italia i giovani che pratichino più di uno sport, mentre gli Stati Uniti si incoraggiano i più piccoli a praticare più discipline contemporaneamente. Insomma: per gli statunitensi fare sport è considerato tanto utile quanto studiare matematica o letteratura.

E QUI? TUTTA UN’ALTRA STORIA – Una cosa è chiara: gli USA vivono e tramandano lo sport come si farebbe con un grande racconto epico. Sorge allora spontaneo chiedersi a cosa sia dovuto questo alone di volgarità che l’Italia associa così comunemente alla comunicazione sportiva. Da dove nasce, quindi, questo modo di concepire lo sport? Forse è, in un certo senso, insito nella cultura. Basti pensare all’idea di Umberto Eco sullo scrivere “libri di sport”, riassumibile dalle celebri critiche – per usare un termine soft – rivolte ai progetti letterari di Gianni Clerici, indimenticabile penna del tennis italiano, o ancora a quelle del lombardo Gianni Brera, autore di racconti brevi. Eco lo liquidò prontamente, definendo le sue opere: “Ridicole banalità”. Il messaggio è piuttosto chiaro: gli sportivi facciano sport, che siano gli scrittori ad occuparsi di scrivere.

Probabilmente, però, i ‘pregiudizi’ non si fermano qui. In primo luogo non si può dire che l’Italia includa le discipline sportive nel percorso educativo dei suoi giovani. Nelle scuole italiane lo sport non si insegna, semmai si pratica a livello non agonistico e limitato all’apprendimento del gesto tecnico: sia esso il tiro a canestro o la “rotazione” dei giocatori nella pallavolo. La figura del professore di educazione fisica è tipicamente europea e inesistente, ad esempio, nel mondo americano, dove l’insegnante di Sport è sempre docente di un’altra materia. Questo favorisce un’inscindibile fusione tra la pratica fisica e quella più marcatamente scolastica o accademica.

Quante volte la parola “sport” compare nella nostra Costituzione? Senza avventurarsi nella giurisprudenza, è sufficiente constatare la giovinezza del nostro Ministero dedicato alla materia, praticamente neonato e sovente associato ad altri ambiti, spesso poco inerenti all’oggetto. Inoltre non si può non menzionare il fatto che un Paese la cui fascia demografica dominante sfiora la mezza età, con un tasso di natalità tra i più bassi in Europa, non possa aspirare ad essere un contesto favorevole ai nuovi sportivi. L’attività fisica è, non esclusivamente ma soprattutto, roba da giovani. Meno si pratica lo sport, meno se ne parla con cognizione di causa, meno competenti sono i suoi interpreti.

RIMBOCCARSI LE MANICHE – Il trucco di fare cultura con lo sport consiste nel vincere il pregiudizio verso la narrazione sportiva, usandola come pretesto per parlare di temi considerati più importanti. Per esempio associando al ritratto di un atleta o di un evento una contestualizzazione storica, un ricordo di vicende passate. Cultura e sport non solo possono convivere, ma si rendono a vicenda più avvincenti. In particolar modo, lo sport deve essere una scusa per parlare di “noi”, dell’Italia e della vena competitiva che ci attraversa. Buffa è uno dei portavoce di questo rinnovato metodo fiabesco, che sembra poter dare vita ad una generazione in grado di raccontare la tragedia dell’Olocausto attraverso la biografia di Arpad Weisz, allenatore dell’Inter deportato ad Auschwitz, o un affresco della guerra del Vietnam vista dagli occhi di Muhammad Ali. Lo sport ha avuto la capacità di riavvicinare in passato, ed è forse ciò che riavvicinerà in futuro se solo – conclude Federico Buffa – verrà elevato dallo status di passatempo, liberandosi di quell’etichetta “nazionalpopolare” che gli è stata ingiustamente affibbiata.

 

di Giacomo Checchin 

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