Vivere in prigione: la cella di un detenuto tra legge e diritti umani

COME SI RIABILITA ALLA SOCIETÀ UNA PERSONA IN QUESTE CONDIZIONI? NE PARLA L'INCONTRO ALL'UNIVERSITÀ DI PARMA

C’è chi vorrebbe un carcere con regime duro per tutti, una sorta di deterrente e avvertimento per chi pensa che commettere un reato poi non si paghi così severamente. Ma forse la strada migliore è quella di rieducare il reo così da poterlo reinserire come individuo migliore nella società. Ottime premesse quelle delle legislazioni nazionali e internazionali, focalizzate sui diritti umani e sulla conduzione di una vita normale anche nella cella, ma sarà davvero così la situazione carceraria odierna o quella delle legge è – per ora – un’utopia?

Giovedì 14 novembre 2019, presso l’Aula Filosofi del Palazzo Centrale dell’Università di Parma, si è tenuto l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri organizzati dal PUP, il Polo Universitario Penitenziario, con il tema ‘La cella di un detenuto: com’era ieri, come è oggi e come sarà domani’, per rispondere a questo interrogativo facendo il punto della situazione.

Il legame che unisce Università e Carcere di Parma è ormai consolidato ed è volto a implementare il diritto allo studio dei carcerati non solo tramite l’istituzione del polo didattico e la messa a disposizione di materiale e docenti, ma anche attraverso attività che cerchino di unire e stimolare la cooperazione tra studenti detenuti e non. Per questo è fondamentale la sensibilizzazione della popolazione sul tema del diritto allo studio come costituente di umanità. Presenti all’incontro non solo studenti universitari, ma anche i maturandi di alcune scuole superiori parmigiane.

Vincenzo Picone, regista e curatore di laboratori teatrali presso il Teatro due di Parma, che ha letto alcuni testi, poesie e lettere scritte dagli studenti detenuti e dagli studenti universitari loro tutor, riguardanti i propri vissuti e sviluppati nell’ambito del laboratorio 2018/2019 ‘Il castello dei destini incrociati‘. “Se all’inizio dei lavori erano attive delle differenze, date ad esempio dalla divisa, poi queste sono finite e vi è stato uno scambio di ruoli. La vicinanza dei corpi genera pensiero, le opere non sono di uno o dell’altro ma di tutti gli studenti insieme” spiega Picone.

Il compito dell’università, per persone detenute è “tenere viva la passione e far stare bene la persona e coinvolgerla. Quest’anno il tema delle mie lezioni sono i tarocchi, ovvero simboli e archetipi che tutti viviamo e che tutti uniscono” dichiara Vincenza Pellegrino, docente di sociologia dei processi culturali all’università di Parma.

La sfida di questo incontro è quello di cambiare i linguaggi e gli stereotipi legati a quel luogo, far ragionare i ragazzi da una sfera micro e concreta a quella macro dei pensieri astratti e dei valori, far capire loro cosa un’istituzione faccia per la cittadinanza.

SFATARE I LUOGHI COMUNI   É questo l’obiettivo di Fabio Cassibba, docente di diritto penale all’Università di Parma. Secondo l’opinione comune, infatti, il carcere viene visto come un giusto castigo e il mezzo per l’espiazione della pena, per questo non ci rallegriamo di sapere che i detenuti protestano per avere una televisione o, quando vediamo le loro condizioni, dallo stipamento nelle celle al fatto che devono fare domanda anche solo per avere una coperta in più, sorge spontaneo il pensiero del “tanto se lo sono meritato”. In realtà questa percezione collettiva è antitetica alla legge nazionale e sovranazionale che, nella loro essenza democratica, devono garantire senza eccezioni il rispetto dei diritti umani quali il valore della persona, l’inviolabilità della libertà personale, il divieto di trattamenti disumani e degradanti, finalità rieducativa della pena e diritto alla salute. “Molto spesso si pensa al carcere come uno strumento di sofferenza per l’ammenda del reo. Ma in realtà la Costituzione prevede come unica finalità della pena la rieducazione del condannato” afferma il relatore.

Un tema importante toccato durante l’incontro è quello dell’architettura delle carceri che deve essere regolata dalla giurisdizione poichè è forma del potere statale. Nel passato la prigione era spesso nei sotterranei o nelle segrete di un castello, poichè era il luogo adibito alla segregazione e all’oblio, mentre le pene erano pubbliche e spettacolarizzate tra la popolazione. La situazione ha cominciato ad evolversi con l’illuminismo giuridico, di cui l’Italia è stata la culla grazie al lavoro di Cesare Beccaria. Si è iniziato così a misurare la civiltà di una nazione non per come tratta i ricchi, ma per come tratta le persone deboli; ed è proprio in quell’epoca che la pena comincia ad assumere una funzione rieducativa.

Ma com’è la cella oggi?Oggi nella cella il detenuto vive e lavora, cucina, si riunisce, espleta i suoi bisogni fisiologici” dichiara il professor Cassibba facendo riferimento alla legge italiana ed europea. Per tanto la cella, come spazio giuridico, deve garantire la sicurezza , non solo verso la popolazione esterna, ma proprio quella tra i detenuti, la libertà residua, poichè lo Stato deve togliere solo la libertà di movimento, e l’individualizzazione per una pena giusta.

Tuttavia la situazione italiana mostra ancora importanti lacune: la Corte Europea di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri del +120/150%, che intacca in maniera importante il diritto alla salute, e la Corte Costituzionale è intervenuta per garantire i diritti umani anche a chi si trova in regimi particolari quali l’isolamento. In quest’ultimo caso, nonostante il particolare tipo di detenzione serva a spezzare i legami di appartenenza con il contesto criminoso da cui arrivano, i detenuti in isolamento si ritrovavano il divieto – diciamolo pure, assurdo- di non poter tenere più di tre libri nella propria cella o di non poter cucinare.

E come sarà la cella nel futuro? “Non lo so come sarà domani una cella ma si deve mantenere il diritto alla speranza, che è un diritto di cui gode anche il carcerato. La giustizia non si deve arrestare alle porte del carcere”, conclude il professore.

LEGGE VS REALTÀ – “Il diritto non ha valore descrittivo. La pena umilia, tortura e non si risolve nella limitazione della libertà di movimento ma fa ammalare fisicamente e  psicologicamente. La situazione non si capisce dall’ordinamento e dalle circolari ma dall’esperienza”, così interviene Alvise Sbraccia, docente dell’Università di Bologna e membro dell’associazione Antigone, osservatorio nazionale delle condizioni di detenzione.

Come spiega la professoressa, fare una generalizzazione sulla situazione carceraria italiana è difficile perchè vi sono istituti efficenti ed altri meno, tuttavia sembra che vi sia una diffusa manipolazione della realtà: una circolare ministeriale impone al personale interno alla prigione di sostituire il nome ‘cella’ con quello di ‘camera di pernottamento’, quasi per richiamare un’idea di distinzione tra giorno/notte, attività/riposo ed evocare una dimensione privata. La realtà è ben diversa.

Fino a otto anni fa vigeva il principio di unicellularità – ovvero un detenuto per ciascuna cella – ma in realtà presto in ciascuna cella arrivarono a convivere due o anche sei individui in brande a castello, dove chi dorme più in alto è a 5 cm di distanza dal soffitto. Gli spazi ristretti obbligano anche a deambulare per la cella uno alla volta e, quello che era il dover stare nella cella per 20 ore al giorno, si è trasformato quasi in un obbligo di stare a letto. Le condizioni più critiche si vedono poi d’inverno e d’estate quando il gelo, il caldo e l’afa si estremizzano in spazi così angusti. Le conseguenze psicofisiche sono quelle di un’ampia depressione, con l’uso di psicofarmaci e la pratica del tagliarsi le vene, fino ai casi estremi di morte.

Come si fa a restituire un individuo migliore alla società se lo si detiene in queste condizioni?” chiede il professore Cassibba alla platea. Se infatti nel passato la tortura e la segregazione erano apertamente dichiarati e mostrati in pubblico, ora si vede un’inflizione del dolore e una violenza generale più implicita, che va decisamente contro i principi costituzionali. Nonostante la situazione sia ancora critica, paragonando il sistema carcerario italiano con quello ben più efficente norvegese, si sta cercando di fare dei passi avanti. Dimostrazione di questo sforzo sarebbe la direttiva ministeriale ‘Celle aperte‘ del 2011 che impone di tenere le celle aperte durante il giorno e che, sebbene non trasformi il sistema, cambia sicuramente l’esperienza dei soggetti che in quegli ambienti vi vivono.
É solo nello scambio  che produce contenuti e nella vita relazionale che si può dare un aiuto alla rielaborazione collettiva, e non solo individuale, della pena“, conclude Sbraccia.

 

di Laura Storchi

 

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