Vietati occhiali sul lavoro. Ultima assurdità in Giappone contro le donne

CRESCE LA PROTESTA DELLE LAVORATRICI GIAPPONESI CONTRO UNA SOCIETÀ SESSISTA: L'UTILMA IMPOSIZIONE VIETA GLI OCCHIALI DA VISTA SUL LAVORO

– Nick: “Aspetta un attimo. Cioè, il mio capo, che noi stiamo progettando di uccidere, ti sta morendo davanti, e tu lo salvi?”.

– Dale: “Beh, messa così non sembra una cosa molto bella”.

È un dialogo tratto dal film comico ‘Come ammazzare il capo… e vivere felici, uscito nelle sale nel 2011, in cui i protagonisti non sopportano più i loro capi e dunque tramano per ucciderli.

In Giappone, una recente legge sul dress code imposto a lavoro potrebbe convincere alcune donne al ‘capo-cidio’. La legge permette infatti ai datori di lavoro di obbligare le sole dipendenti donne a non indossare gli occhiali da vista durante le ore lavorative. Gli occhiali devono essere sostituiti con le meno invasive lenti a contatto. Perchè? Si tratta della terza prescrizione rivolta alle lavoratrici femminili, dopo l’obbligo del make up e dei tacchi (quelli medio-bassi. Alti non sono ammessi). Quest’ultima imposizione aveva innescato l’immediata reazione da parte delle dipendenti, stanche di sopportare i ‘capricci maschilisti’ dei propri vertici.

L’OSSESSIONE PER LA BELLEZZA – Con la stretta sugli occhiali, il Giappone si rende nuovamente protagonista di un episodio che va al di là di ogni immaginazione.  Non importa quali problemi di vista uno abbia, ciò che conta è presentarsi in ufficio rispettando questo preciso dress code dai tratti molto sessisti. Il motivo della contestata decisione sta nel fatto che la montatura rischia di rovinare l’ovale del viso. Inoltre, sembra che gli occhiali trasmettano freddezza e un’aria distaccata a chi li indossa, come hanno dichiarato molte catene di negozi. Se invece le aziende di bellezza ci tengono a mettere in risalto il make-up delle dipendenti, nei ristoranti indossare gli occhiali rischia di entrare in contrasto con lo stile tradizionale del kimono.

La questione ha riaperto il dialogo sugli standard di bellezza oppressivi che ancora oggi vengono imposti nei luoghi di lavoro, in Giappone. “Spesso alle giovani donne viene sottolineata l’importanza dell’aspetto esteriore e di apparire femminili” ha dichiarato al Japan Times la quarantenne Banri Yanagi, agente presso una compagnia assicurativa di Tokyo. “È assurdo permettere agli uomini di indossare gli occhiali, ma non alle donne”.

LE LAVORATRICI E IL MONDO DEL WEB NON CI STANNO – Dopo la diffusione della notizia sul divieto degli occhiali dall’emittente giapponese Nippon TV, la questione ha avuto in breve tempo grande risonanza. Su Twitter molte donne hanno raccontato la propria esperienza, seguita dall’ hashtag #glassesareforbidden (gli occhiali sono vietati). Il  sostegno alle donne giapponesi è presto diventato globale e social. L’insoddisfazione per queste imposizioni  si è fatta sentire fin da marzo 2019, quando le donne giapponesi sono scese in piazza per protestare. In giugno, è nato il movimento #KuToo. L’assonanza con il già noto movimento #MeToo non è causale. ‘KuToo’ rimanda, però, anche alle parole  kutsu (scarpa) e kutsū (dolore). È dunque chiaro l’intento dietro a questo movimento: opporsi all’uso obbligatorio dei tacchi in ufficio.  Ma quest’ultima battaglia ha un significato ancora più grande. Vuole combattere ogni forma di sessismo contro la donna e contro una società, quella giapponese, che considera il corpo femminile un terreno di dominio patriarcale. Le lavoratrici giapponesi si sono così mobilitate per chiedere un ambiente lavorativo libero da ogni forma di discriminazione sessuale, ancora molto diffusa. “Se indossare gli occhiali fosse un vero problema sul lavoro, dovrebbe essere vietato a tutti, uomini e donne” aveva dichiarato l’ideatrice della campagna #KuToo, Yumi Ishikawa.

In giugno era stato, invece, chiesto al governo di Shinzō Abe di introdurre una legge per proibire l’obbligo dei tacchi in ufficio. In realtà, in Giappone non esiste una norma scritta che impone tale vincolo. Tuttavia, è praticamente impossibile per una donna trovare un datore che non le chieda di indossarli. E ora che alle donne è proibito anche l’uso degli occhiali, la situazione inizia a farsi stretta. La discriminazione è dunque evidente: non solo una dipendente che non rispetta il dress code rischia di non trovare lavoro. Ma c’è anche il rischio che possa perdere il posto, nel caso si rifiutasse di rispettare le regole.

MENTALITÀ VECCHIA: “Non sono assolutamente d’accordo. Deve essere una scelta personale – commenta K. H., una donna giapponese, oggi residente a Parma, che ha tuttavia vissuto per 23 anni in Giappone – Personalmente penso anche un’altra cosa: che il nostro senso di ‘bellezza’ può essere troppo stereotipato. Al giorno d’oggi io credo che possano esserci tanti diversi tipi di bellezza”.

Se, infatti, il Giappone è oggi un paese all’avanguardia in numerosi settori, lo stesso non si può dire per la parità di genere. L’ultimo rapporto globale del Forum Economico Mondiale rivela che il Paese del Sol levante occupa il 110° posto sulle 149 nazioni analizzate per quanto riguarda il divario esistente tra uomini e donne, sul posto di lavoro.

 Dello stesso parere è Y. K., anche lei giapponese residente in Italia da 20 anni, dopo 10 anni trascorsi in patria: “Questi obblighi non vengono ‘imposti dal Paese’. Non sono leggi scritte da qualche parte, ma l’abitudine di una mentalità vecchia che comunque, in Italia, assolutamente non seguo e rispetto. Anzi, qui se una donna si veste in maniera eccessivamente seria (con giacca, gonna, calze di nylon, scarpe da impiegata come in Giappone) viene un po’ ‘penalizzata’. In Italia è possibile vestirsi più alla moda e più sexy anche sul lavoro. Ad esempio portando la camicia un po’ aperta: cosa che in Giappone non si fa mai!”.
L’ABITO FA IL MONACO – È nota l’espressione “l’abito non fa il monaco”, ma forse in Giappone questo detto non usa. Sembra, infatti, che nel paese si dia troppa importanza al modo in cui ci si presenta a lavoro. Tanto che rifiutarsi di rispettare il dress code è sinonimo di maleducazione. La capacità di una donna nel proprio mestiere sembra dunque essere dettata non tanto da meriti personali, quanto piuttosto dal look: “La capacità di un buon lavoratore non dipende da occhiali o no, da una giacca blu o rossa, da capelli neri o tinti – continua Y.K, che tuttavia non se la sente di demonizzare del tutto il ruolo dell’abbigliamento – In un certo senso il look è importante nel lavoro, perché vestendomi bene mi sento meglio e lavoro meglio. Ma questo vestirsi bene, alla moda, è ‘vietato’ negli uffici in Giappone. Le banche e alcune aziende hanno la divisa appunto per rendere tutti sobri e omogenei: tutti uguali, niente collane di pietre colorate, niente strati di braccialetti vistosi. I capelli devono essere legati e non sciolti ecc. Danno importanza alla serietà e all’uniformità dell’apparenza” conclude Y.K.
Oriana Fallaci diceva: “Essere donna è un avventura che richiede molto coraggio. Una sfida che non finisce mai”. Probabilmente, la nota giornalista italiana non sapeva quanto quelle parole si sarebbero rivelate vere. Oggi, infatti, l’espressione “una sfida che non finisce mai” sembra più azzeccata che mai. Specialmente dove, come in Giappone, alle donne è chiesto di combattere anche per le questioni più insolite e surreali che ormai nel 2020 si pensava di aver superato.
 di Mattia Celio

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