Ernst Grube e l’importanza di fare memoria oggi

SOPRAVVISSUTO ALLA SHOAH OGGI HA 88 ANNI E SPIEGA AGLI STUDENTI COME SIA FACILE DAL NULLA ARRIVARE AL DISASTRO

“Viviamo in un momento storico dove una superstite dei campi di concentramento, una donna di 80 anni, deve condurre la sua vita sotto scorta. Fare memoria, quindi è fondamentale”. Così Michele Guerra, assessore alla cultura di Parma, apre l’incontro ‘Una voce per Terezin’ organizzato per la giornata della memoria che si è tenuto il 23 gennaio all’Auditorium Paganini alla presenza di diverse scuole parmensi e della comunità.

Ospite speciale dell’evento organizzato dal Centro studi movimenti e dall’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Reggio Emilia – di cui fa parte il traduttore Matthias Durchfeld -, è Ernst Grube superstite del campo di concentramento di Terezin dove ha vissuto alcuni mesi in quanto meticcio – ovvero figlio di padre ariano e madre ebrea – che ha raccontato la propria esperienza.

L’incontro si inserisce nella missione di memoria per la comunità che non coinvolge soltanto la città ma si amplia a livello regionale: verrà ripetuto anche nella città di Reggio Emilia e in ottobre sarà organizzato un viaggio per gli interessati proprio a Terezin.

“Viviamo in un momento dove succedono cose strane: 91 senatori si sono astenuti nei confronti della Commissione contro razzismo e antisemitismo e riteniamo normale fare morire delle persone in mare. Oggi non parliamo di cose di cui siamo immuni, c’è sempre uno spettro di intolleranza nella società – dichiara Margherita Becchetti del Centro studi movimenti – Forse è ora di fermarci tutti quanti, non accettare più pregiudizi qualunquisti, non accettare più violenze razziste, non accettare più muri e gente che viene lasciata morire. E’ arrivato il momento di capire che a tutto questo deve essere imposto un limite”.

UN RACCONTO DI MEMORIA  – La prima domanda che viene fatta al testimone è forse la più naturale: come hai passato la tua vita da bambino e quali sono i ricordi della tua infanzia? La storia di Ernst Gruber inizia a Monaco di Baviera nel 1932 quando nasce in una famiglia normalissima, con padre mastro imbianchino e madre diplomata infermiera, in un appartamento in affitto vicino alla sinagoga cittadina. L’anno dopo Hitler è salito al potere e, quando Ernest aveva solo tre anni, sono state emanate le leggi di Norimberga con le limitazioni ai diritti della popolazione ebraica. E’ nel 1938 però che viene distrutta la sinagoga e tutti gli ebrei sono sfrattati dalle proprie case: il padre, politicamente impegnato, prova a fare resistenza occupando l’appartamento per quattro mesi ma la situazione diventa impossibile con l’arrivo dell’inverno e del freddo dato che non si aveva luce e riscaldamento. Così Ernst, il fratello più grande e la sorellina di pochi mesi vengono messi in un orfanotrofio ebraico con altri 46 ragazzi nella stessa condizione e sono rimasti lontani dai genitori per cinque anni. “Eravamo bambini e non percepivamo il problema e il suo dilagare disastroso come invece vivevano quotidianamente gli adulti delle nostre famiglie. – spieg ail sopravvissuto – Ma sentivamo il disagio quando per strada ci sputavano, ci chiamavano ‘sporchi ebrei’ o ci picchiavano. Avevo 9 anni quando nell’ottobre del ’41 venne introdotto l’obbligo di indossare la stella gialla. Mi ricordo gli sguardi, la gente che ti isola e ti disprezza. Mi sentivo un escluso, di non appartenere a nessuna società.” Gli ebrei non potevano più frequentare le scuole pubbliche, in quelle ebraiche gli alunni erano divisi in mega gruppi -uno per le scuole elementari e uno per le scuole medie- ma spesso non avevano neanche maestri che insegnassero perchè emigrati all’estero o deportati.

Il 20 ottobre del 1941 parte la prima deportazione da Monaco verso est: 1000 sono i cittadini ebrei mandati nei lager, di cui 23 dello stesso orfanotrofio di Ernst, che si ritrova dimezzato, vi furono altre partenze nella primavera successiva. “Era davvero difficile salutare i propri amici che facevano la valigia, che si sapeva sarebbero partiti ma senza capire quale fosse il loro destino e senza potere fare qualcosa. A quel tempo non sapevamo le condizioni e il destino ma già la separazione forzata e l’impotenza creavano l’idea di lutto.” E quando comincia il terrore? “E’ cominciato presto, ma a piccoli passi è dilagato nel disastro totale.”

Nel 1942 l’orfanotrofio ha chiuso e tutti gli ebrei rimanenti in città – all’incirca 4000 – sono stati trasferiti in due ghetti: la situazione cambia nel giro di pochi mesi quando comincia la deportazione di massa, le stanze si svuotano, gli spazi aumentano e non c’è più bisogno di tenerne aperti due e poi nessuno. “Eravamo stati trascinati improvvisamente da una condizione di normalità alla totale incertezza: non si aveva alcun diritto ne civile ne politico, eravamo persi nelle mani della politica. Quello che mi face più soffrire fu che ci trovavamo alle porte di Monaco, non di un paese di campagna isolato, la gente passava e vedeva in continuaziona la nostra condizione ma non faceva niente” ricorda Ernst, criticando l’indifferenza che anche oggi dilaga in situazioni simili.

Nel ’43 il ghetto è vuoto e chiude definitivamente, Ernst e i fratelli riescono a ricongiungersi ai loro genitori nel primo – ormai depredato di tutti i suoi beni – appartamento. Sebbene ricordi quei momenti di riavvicinamento con gioia, Gruber afferma che la situazione non tornava affatto alla normalità ma peggiorava: la madre era costretta ai lavori forzati, non si andava a scuola e non si avevano più amici. Inoltre le sorelle della madre di Ernst avevano sposato degli ebrei e con loro avevano avuto dei figli, solo dopo la guerra hanno scoperto che un’intera parte della famiglia era stata deportata e uccisa nei lager. Ma a ciò ovviamente va aggiunto un contesto di guerra, dove la città veniva bombardata ma gli ebrei avevano il divieto di accedere ai bunker antiaerei.

Al padre ariano era concesso di tenere la radio, quindi la famiglia era informata sull’esito della guerra: ” Avevamo sempre la speranza che saremmo potuti sopravvivere insieme come una famiglia entro la sconfitta nazista. Ma il fare memoria deve essere combinato con il sapere: la situazione di noi ebrei peggiorava con la sconfitta tedesca. Prima c’era solo una spinta violenta all’emigrazione, poi dal ’41 – con le prime sconfitte dell’esercito tedesco – si è arrivati alla soluzione finale”, dichiara il testimone.

La speranza della famiglia Gruber finì definitivamente il 20 febbraio del ’45 quando, nonostante l’ostruzionismo del padre, vengono deportati Ernst, i fratelli e la madre nel campo di concentramento di Terezin a Praga. “Non voglio raccontare la mia vita a Terezin. Sono stato solo tre mesi ma il tempo non è una misura che funziona perchè l’insicurezza e il terrore sono costanti. A un certo punto era arrivata la Croce Rossa svizzera e noi eravamo felici perchè pensavamo che ci avrebbero aiutati, ma poi è arrivato anche l’esercito tedesco in ritirata che si è messo a sparare su noi superstiti senza motivo. E’ stata un’altalena continua di paura e speranza“, afferma Gruber. Tutto finisce l’8 maggio 1945 quando finalmente l’Armata Rossa libera Praga e il lager.

IL PRESENTE – “Quello che mi sento di dire ai ragazzi di oggi è che in quel periodo ho scoperto davvero l’importanza della scuola e dello stare insieme a scuola, che non va mai sottovalutato” afferma Ernst quando, finita di raccontare la sua storia, si rivolge agli studenti presenti all’incontro e risponde alle loro domande.

Gli alunni, curiosi, chiedono che effetto fa vivere ancora a Monaco e cosa pensa della Germania di oggi. ” Sono ancora diviso tra il ricordo della segregazione e della triste solitudine di quel periodo e la voglia di avere una nuova vita, nuovi obbiettivi e nuova fiducia nei cambiamenti che la società può fare in meglio. Ma sono scioccato e preoccupato che dentro a un contesto democratico si trovano manifestazioni antidemocratiche. Io farò tutto quello che posso con la mia memoria per farmare tutto ciò: aiuto soprattutto chi è in fuga oggi, io capisco com’è vivere con la paura e non voglio che nessuno viva così.”

“Ciò che mi ha fatto forza in tutti questi anni è l’influenza politica – conlcude – che ho avuto da mio padre. Mi ha dato forza nei momenti bui e l’orientamento verso obbiettivi concreti nel periodo successivo. Oggi invece mia moglie mi aiuta concretamente nella mia azione di fare memoria, venendo per esempio qui oggi”.

di Laura Storchi 

 

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