Orario di lavoro: lo stacanovismo non è più produttivo

LA RIDUZIONE DELL'ORARIO LAVORATIVO E' UN'UTOPIA PER L'ITALIA? NEL NORD EUROPA INVECE DA' I SUOI FRUTTI

 

E’ stata smentita recentemente la notizia che la nuova prima ministra finlandese Sanna Marin vorrebbe introdurre un orario lavorativo ridotto per le aziende dello Stato: non un aspetto del suo innovativo programma politico, quindi, ma comunque un obiettivo a lungo termine alla quale ispira la Finlandia.

Settimana lavorativa di 28 ore, senza riduzioni di stipendio: a noi sembra un’utopia. Eppure accade nella vicina Germania, così come nel nord Europa. Nel World Happiness Report che stila le nazioni con maggiore tassi di felicità tra la popolazione, vediamo molti degli Stati che stanno andando verso questi investimenti. E allora perchè l’Italia sembra così restia al cambiamento del concetto di lavoro dipendente?

Mentre la società post-industriale ha fatto cambiare molto velocemente la mentalità ai Paesi del nord, in Italia si ha ancora culturalmente il rigetto per l’ozio creativo, che spesso è considerato propriamente il non fare nulla, stare tutto il giorno sul divano davanti al cellulare. Inoltre sembra essere un tema di scarso interesse per i partiti politici e i sindacati. “Non è stato più un argomento perché sostanzialmente, per trent’anni, l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi,” spiega Simone Fana autore di Tempo rubato in un’intervista a Thesubmarine. “Bisognava lavorare di più per produrre di più. La riduzione degli orari veniva vista come qualcosa che avrebbe ridotto la produttività e che avrebbe compromesso sostanzialmente la crescita.”. Non è stata considerata una politica efficace perché si è martellato costantemente sul fatto che lavorando di più il reddito da distribuire fosse più ampio, e “fosse quindi più utile aumentare gli orari di lavoro piuttosto che ridurli.”

Grafici dal Sole24Ore

COSA DICONO LE STATISTICHE – Negli ultimi due secoli la società è avanzata molto rapidamente in tutti i settori, creando la società post-industriale. Il lavoro, prima basato sulla produzione di beni materiali ora è incentrato su quelli immateriali, primi fra tutti i servizi e l’informazione. Ciò che è prediletto, e spesso nel nostro caso non capito, è il lavoro mentale: il 30% della popolazione svolge lavoro impiegatizio e il 30% svolge lavori di tipo creativo.

Allo stesso modo la tecnologia sempre più potente, le crescenti capacità organizzative e la globalizzazione hanno fatto in modo che serva meno lavoro ma che si produca di più. Se nel 1891 la popolazione italiana era di 30 milioni, un lavoratore lavorava 10 ore al giorno per sei giorni alla settimana; oggi siamo in 60 milioni, ciascuno lavora in media 8 ore al giorno per 5 giorni la settimana ma produciamo 23 volte di più. Questo grazie all’automatizzazione e alle nuove tecnologie. 

Oggi, però, il lavorare meno ha in Italia un’accezione negativa. Inoltre i più pessimisti vedono la tecnologia non come un aiuto, ma come una minaccia. La nostra vicina Germania ha dimostrato – come mostrano le statistiche OCSE– come ‘abbracciare’ invece la tecnologia e concedere più tempo libero abbia dato i suoi frutti. Soprattutto nel settore metallurgico, vi è stata un’introduzione massiccia di novità tecnologiche che hanno aumentato l’efficienza: a fronte di una settimana lavorativa di 28 ore (la più corta in Europa, seguita da Olanda, e altri Paesi del nord Europa), la produzione è cresciuta e, conseguentemente, sono cresciuti del 11% i salari. In Italia gli operai non precari lavorano 40 ore la settimana, in media, e sono tra i meno produttivi di Europa dopo la Grecia (+0,14%) e gli stipendi sono calati dell’1%.

Grafici dal Sole24Ore

L’Italia nel 2002 aveva un tasso di occupazione del 57,4%. Si sono poi succedute diverse politiche tra cui la Legge Biagi e il Jobs Act,  per arrivare al 2018 con il tasso di occupazione al 58%. La Germania, con persone che lavorano 400 ore in meno l’anno rispetto l’Italia, è passata da un tasso di occupazione del 72% al 79%. Le scelte gestionali delle aziende influenzano ovviamente anche la situazione odierna: in Italia a tre anni dalla laurea solo 56 giovani su 100 trovano lavoro, mentre in Germania sono il 94%.

Aspetto diverso ma non meno importante è quello dell’impatto sulla salute del lavoratore. Non a caso sta aumentando la percentuale di giovani che soffrono o hanno sofferto della sindrome di burnout – letteralmente “lo scoppiare” – che non sanno reagire all stress diventando insoddisfatti e ulteriormente stressati. Le statistiche di British Safety Council dimostrano che nel periodo 2017-2018, il 57% del totale dei giorni di malattia era dovuto a stress, ansia o depressione legati al lavoro e il 44% era causato dalla sola pressione del carico di lavoro. Una riduzione dell’orario di lavoro, quindi, gioverebbe alla produttività proprio perchè rafforzerebbe la salute del dipendente che, vedendo in ottica diversa il lavoro, affronterebbe con un umore migliore e maggiore motivazione i propri compiti.

CASI CONCRETI – Andando un po’ più a est vediamo che il Paese dello stacanovismo per eccellenza, il Giappone, ha fatto un tentativo con risultati sorprendenti. Nell’agosto 2019 la Microsoft giapponese ha concesso ai suoi 2.300 dipendenti la settimana lavorativa breve di 4 giorni. Confrontando con i dati dell’agosto 2018 si è rilevato come la produttività sia aumentata del 39%, la soddisfazione dei dipendenti del 92% mentre i consumi di elettricità e lo spreco di risorse e materiali è diminuito del 23%.

I primi a fare questa prova, sono stati invece gli svedesi. I dipendenti della Toyota di Goteborg è dal 2002 che lavorano sei ore al giorno: il fatturato è raddoppiato e gli impiegati sono più felici. Questo perchè lavorando meno sono più efficienti e tornano a casa più riposati.

Ma anche in Italia c’è da poco un piccolo esperimento: l’azienda head hunter Carter&Benson di Milano dal gennaio 2020 ha introdotto l’orario di lavoro ridotto a 36 ore e dal 2021 introdurrà anche la settimana da 4 giorni per i suoi 25 dipendenti. Lo scopo, ha affermato l’amministratore delegato Griffini a La Repubblica, non è quello di aumentare la produttività quanto fare del bene alla società riducendo costi e consumi e, magari, assumendo qualche lavoratore in più.

Un altro caso italiano è l’azienda produttrice di software Zupit che ha sede a Trento e conta una ventina di dipendenti, di 30 anni d’età come media. Nata nel 2015, si è impegnata negli ultimi due anni a ridurre da 8 a 6 ore l’orario di lavoro e da 5 a 4 i giorni lavorativi. Lo scopo, per un’azienda che basa la sua attività sul lavoro intellettuale e creativo e sulla qualità dei prodotti offerti, è quello di aumentare la produttività che in questo caso si ottiene facendo condurre una vita più bilanciata ai propri dipendenti. Maggiore produttività e soddisfazione individuale sono state effettivamente raggiunte. Inoltre, la riduzione degli orari ha avuto un duplice effetto positivo poichè ha permesso di assumere al proprio interno tanti giovani neo laureati e ambiziosi senza che cercassero lavoro all’estero.

La produttività di un’azienda non dipende quindi solamente dal lavoratore, ma anche dal datore di lavoro e dalle sue politiche aziendali, dalle sue scelte di investimento e di organizzazione. Riduzione degli orari di lavoro, aumento degli stipendi in base alla produttività, l’istituzione di una società dove il riposo ha lo stesso valore dell’ozio creativo: questo ci farebbe uscire davvero arricchiti in tutti i sensi.

di Laura Storchi

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