Giornalisti oltre il limite: intervista a Daniele Moro

PER DECENNI E' STATO INVIATO SUI LUOGHI DI SCONTRO COME IN NICARAGUA E BELFAST (FINENDO ANCHE CATTURATO DA TERRORISTI) E IL SUO E' ANCORA AMORE PURO PER LA PROFESSIONE

Ci sono persone che, pur avendo avuto una vita intensa e avventurosa, raramente la raccontano apertamente, e le loro storie rischiano di finire nel dimenticatoio. Una di questa è senza dubbio il giornalista Daniele Moro, con una stimata carriera da inviato alle spalle: nato a Milano nel 1951, dagli anni ’70 ai primi anni 2000 è stato corrispondente di guerra dal Nicaragua all’Irlanda del Nord, dai Balcani al Medio Oriente, passando per la Somalia, dove ha incontrato Ilaria Alpi prima che venisse uccisa. Dopo essere stato caporedattore di Tg5 per 18 anni e direttore di una TV locale romana, oggi vive tra Milano e Washington, dove insegna alla Johns Hopkins University e dal 2014 dirige lo US-Italy Global Affairs Forum, un think tank che si occupa di relazioni transatlantiche.

Come si è avvicinato a questo lavoro?

Ho cominciato quando frequentavo il Liceo Leonardo Da Vinci di Milano, dove scrivevo sul mensile d’istituto. All’epoca in molti iniziavano così, ed è stato prima del ’68, quando i giornali scolastici divennero più politicizzati. All’epoca le riviste scolastiche potevano avere un forte impatto: La Zanzara, che era la rivista del Liceo Parini, fece scandalo per aver pubblicato la prima inchiesta in Italia sull’educazione sessuale, che costò una denuncia ai ragazzi che l’avevano scritta.

In seguito iniziai a collaborare con il quotidiano del PSI l’Avanti!, anche perché ero il capo dei Giovani Socialisti di Milano, dove militava anche Enrico Mentana, e con la Radio della Svizzera Italiana. Queste testate non mi pagavano, facevo ancora la gavetta, mentre il mio primo lavoro retribuito fu come corrispondente dall’Italia per la radio della BBC.

Quali sono state le sue prime esperienze in zone di guerra?

La mia prima esperienza fu in Nicaragua, nel 1978, dove la dittatura militare di Somoza stava venendo rovesciata dai ribelli Sandinisti. Quando mi recai lì i giornali italiani dicevano che la guerra era finita, perché Somoza era fuggito, ma la realtà era diversa: quando arrivai l’aeroporto era saccheggiato, e migliaia di persone cercavano di scappare dal paese. Quando sono andato in città per trasmettere i servizi tramite il telegrafo, dovetti recarmi al palazzo delle poste, che però era circondato dai cecchini fedeli a Somoza che sparavano a chiunque passasse lì vicino. Dopo essere riuscito a entrare rimasi sempre nascosto sotto un tavolo mentre trasmettevo via telegrafo.

La mia meta successiva fu Belfast, in Irlanda del Nord, in piena guerra civile: un giorno ero finito senza accorgermene nella parte cattolica della città, e fui fatto prigioniero da quelli dell’IRA: questo perché avevo vissuto per un certo periodo a Londra, durante il quale ho imparato a parlare l’inglese con l’accento londinese, e per questo quelli dell’IRA mi avevano scambiato per una spia. Mi lasciarono andare quando gli ho detto che ero italiano, al che pensarono che fossi cattolico e quindi un “amico”.

Un’altra volta in cui invece fui arrestato fu a Cipro: stavo facendo un reportage dai due lati del confine che divide tuttora il paese, ma quando sono andato dalla zona turca a quella greca mi misero in cella perché pensavano che fossi legato ai turchi.

Vive a Washington da circa 10 anni. Com’è quella realtà rispetto all’Italia?

Essendo la capitale dell'”impero americano”, Washington ospita più di 100 eventi alla settimana sulla politica internazionale, anche grazie alla presenza di molti dei maggiori think tank del mondo. La città ospita 4 delle migliori università del mondo, dove vengono a studiare giovani specializzandi da oltre 140 paesi, e che al ritorno spesso diventano le future classi dirigenti di quei paesi. La loro è una presenza molto vivace, anche perché rispetto all’Italia in America i giovani sono molto più partecipi nei dibattiti, vengono presi più sul serio. A ciò si aggiunge il fatto che in città hanno sede la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, dove i giovani che ci lavorano hanno grandi responsabilità. Tutto ciò fa sì che Washington, pur non essendo una meta turistica come New York o Chicago, sia una città molto vivace sul piano intellettuale.

Come vede la situazione attuale per i giovani giornalisti?

Devo dire che anch’io, quando ho iniziato, guadagnavo poco o lavoravo gratis. Ma ai miei tempi, dopo questa prima fase, tra i 26 e i 29 anni entravi come praticante o tramite raccomandazioni nel “sistema dei media”, dove fino a 20 anni fa eri molto ben pagato, e una volta ottenuto un contratto avevi molte tutele. Oggi invece i giornalisti sono dei nuovi poveri, basti pensare che il Corriere della Sera paga 8 euro a pezzo ai collaboratori senza contratto, e uno spesso continua a guadagnare poco o niente anche dopo i 30 anni. Così anche la qualità del giornalismo ne risente: se un giornale non ha i soldi per mandarti come inviato in Iraq o in Somalia, ti puoi affidare solo alle notizie che trovi online, ma non sei veramente “dentro” quel contesto.

Tuttavia se un giovane vuole farlo, anche se non guadagnerà molto, è giusto che ci provi: Luigi Barzini, uno dei più importanti giornalisti del ‘900, diceva che “è sempre meglio fare il giornalista che andare a lavorare”. Anche secondo me è il miglior mestiere del mondo. Io, se tornassi indietro, lo rifarei senz’altro.

di Nathan Greppi 

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