Unorthodox e quell’estremismo che abbiamo sempre ignorato

L'ALA CHASSIDICA DELL'EBRAISMO, TANTO ANACRONISTICA E ORTODOSSA CHE CI FA STRANO SCOPRIRLA IN OCCIDENTE

“Quì siamo in America, siamo liberi di fare ciò che vogliamo”
“Williamsburg non è America”

In un mondo – dello streaming di Netflix – dove tutti guardano serie leggendarie e fenomeni mediatici, voi concedetevi la visione di una piccola perla: Unhortodox. Uscita il 26 marzo, ha solo 6 episodi da 50 minuti ciascuno ma avrà il potere di accendere la vostra mente e di farvi porre degli interrogativi importanti.

Sì perchè nonostante la bella sceneggiatura, i costumi impeccabili, le inquadrature a regola d’arte e la bravura degli attori, quel che vi colpirà sarà altro. Quello di cui tratta la serie è un tema che raramente è stato affrontato dall’industria dell’intrattenimento e sconvolge per la relativa vicinanza al nostro mondo: stiamo parlando della comunità chassidica Satmar di Williamsburg, Brooklyn che ha la caretteristica di essere estremista e ortodossa. Non stiamo parlando di Islam, ma di ebraismo. Ed è tratta da una storia vera, quella del racconto uscito nel 2012 di Deborah Feldman: “Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche”.

La storia narrata è quella della 19enne Esty – interpretata da Shira Haas – che vive in questa comunità con la zia e la nonna e che, come le altre donne appartenenti a quella religione, si è sposata con un matrimonio combinato. Inizialmente la protagonista è contenta e sicura del destino che l’attende, vuole seguire le regole, sposarsi e mettere su una famiglia; contrariamente alla madre che è scappata quando lei era piccola e definita per questo ‘ribelle e pazza’.

Esty ha una passione, quella per la musica, che coltiva di nascosto grazie a un’insegnante di pianoforte sua amica. Le cose precipitano quando il suo matrimonio si rivela infelice, la coppia fa fatica a concepire un bambino – che è il sacrosanto dovere della famiglia – e la ragazza si sente costantemente osservata e giudicata dalla famiglia. Per questo un giorno scappa, con l’aiuto della sua insegnante, e con i pochi averi decide di cominciare una nuova vita nella eclettica e cosmopolita Berlino. Ovviamente, il suo gesto non è accettabile dalla comunità e il rabbino ordina al marito e al cugino di andarla a cercare e di riportarla indietro. Ma, anche una volta trovata, Esty ha ormai scoperto la libertà di un mondo non nuovo ma che le è sempre stato negato, sta dando sfogo alla sua passione e ha ricostruito il rapporto con la madre: non tornerà a casa.

Quel che colpisce di più è la cura con la quale sono stati sviluppati i flashback basati sulla vita nella comunità chassidica. Più della metà della serie è in lingua yiddish e in sottosfondo sembra esserci sempre questa ‘cantilena’ di voci in preghiera, che contrastano apertamente con il vociare gioioso di Berlino.

Una scena che colpisce è quella che narra il matrimonio: in un tempo che sembra lungo quanto la cerimonia si vedono i due sposi che hanno solo tre occasioni di stare insieme, tutto il resto del tempo sono sguardi rivolti verso il basso e i corpi dondolanti e totalmente assorti durante le preghiere.

Siamo quasi inteneriti quando vediamo un’ingenua Esty che non sa usare internet; ci fa strano quando prova a difendere con i suoi amici berlinesi le ragioni del suo essere e ci commuoviamo quando lei ammette di essere scappata perchè “Dio si aspetta troppo da me”.

Per questo la serie è un capolavoro che vi rimarrà in testa: mostra la storia della dolorosa e spaventosa ricerca della libertà, della fuga dal classico luogo ‘dove tutti i sogni si avverano’ a un posto che per la religione ebraica ha una pesante eredità di razzismo.

QUEL CHE C’E’ DA SAPERE SU WILLIAMSBURG – Nel quartiere newyorkese, situato a Brooklyn, prende parte la storia passata della protagonista. Tutto ciò che vediamo ci sorprende: siamo sempre stati abituati a pensare del fondamentalismo religioso e di un patriarcato opprimente l’Islam, non l’ebraismo e, soprattutto, non una comunità immersa nel pieno contesto occidentale, nella grande ‘capitale mondiale’ che è New York dove è tutto possibile.

Gli ebrei chassidici sono invece una realtà che non passa certo inosservata una volta attreversato il celeberrimo ponte di Brooklyn. Immaginate di trovarvi nel centro della vita artistica e culturale di una città, in un quartiere pieno di creativi, attivisti che praticano in piena libertà ciò che vogliono; superato un isolato  ti sembra di essere in Israele. Le insegne dei negozi e dei mezzi pubblici, i nomi delle vie sono scritti in ebraico, gli uomini vestono tutti di nero con lunghi cappotti e grandi cappelli – il sirtuk e il shtreimel – da dove scendono due riccioli e le donne indossano sempre gonne lunghe, camicie a maniche lunghe e hanno tutte la stessa pettinatura.

Questa è la comunità chassidica: di origini ungheresi, questi ebrei sono sopravvissuti all’olocausto e, trasferitisi in America, hanno basato il loro ultra-ortodossismo sul fatto che il genocidio nazista fosse una punizione mandata da Dio per essersi mischiati con altre comunità e aver ceduto ai lussi della modernità. Per questo ancora oggi conducono una vita quasi segregazionista rispetto al mondo che hanno intorno. L’uscita dal luogo fisico della propria comunità è concesso solo agli uomini e solo per motivi di lavoro -infatti si vedono occasionalmente camminare per le strade di Manhattan- , gli usi e i costumi americani sono ripudiati in favore di castità e modestia; anche la tecnologia è bandita: non si usano cellulari, televisione e computer, internet e i giornali sono proibiti. Anche le norme sanitarie sono diverse e, in caso di problemi di salute, non possono recarsi nei tradizionali ospedali. I bambini frequentano scuole apposite dove viene loro insegnata la Torah, ma sono separati tra maschi e femmine, le quali una volta fidanzate non possono più studiare.

Come narra la serie tv, le donne vivono in una condizione di controllo costante e devono rispettare regole rigidissime. Fin da bambine viene loro insegnato il valore della purezza, nel caso venissero anche solo toccate da un uomo non potrebbero più sposarsi. I matrimoni sono combinati dalle famiglie e alle donne non è concesso approvare o respingere il partner scelto; una volta che viene stabilito il matrimonio devono purificarsi tramite la cerimonia del mikvah e tagliarsi i capelli, simbolo di sensualità. Il taglio apparentemente uguale che si nota nelle donne è in realtà lo sheitel, ovvero una parrucca, che indossano quando devono uscire di casa. La vita da coniugate è poi caratterizzata dalla sfera domestica e dall’arduo compito di avere quanti più figli possibile per rimettere al mondo i 6 milioni di ebrei sterminati nei campi di concentramento: le donne quindi non possono lavorare, istruirsi o dedicarsi ai propri interessi – considerati peccaminosi -, devono solo occuparsi della casa e della famiglia. Anche la sfera sessuale è denotata non dal piacere ma dalla ritualità, per far sì che tutto vada a buon fine e si giunga presto al concepimento. “L’uomo è il donatore, la donna è il recipiente. Hai capito? Perciò lui deve stare sopra e lei sotto”, dice la maestra di Kallah a Esty in una scena del film.

Perchè adempiano ai loro doveri, sono sempre controllate dagli altri membri femminili della famiglia. Questa condizione di costante giudizio e mancata intimità più che portare a una ribellione da parte delle donne, ha causato più frequentemente il fatto che a loro volta le giovani generazioni mantenessero gli stessi livelli di rigore, rispetto assoluto delle leggi e velata oppressione. “Ricordo di essere rimasta sorpresa quando sono andata al Sarah Lawrence e ho seguito un corso di filosofia femminista in cui tutti mi hanno detto: ‘Hai lasciato il patriarcato!’ Ho pensato: ‘Beh, se ho lasciato il patriarcato, dove erano tutti gli uomini in questo patriarcato? Perché erano sempre chinati sui libri mentre le persone che mi opprimevano erano donne? Perché le persone che mi hanno ferito di più sono state mia zia, la suocera, le insegnanti, l’addetta al mikvah, la maestra di Kallah e la terapista sessuale? Perché sono sempre state le donne a farmi sentire ferita e tradita?’, afferma la Feldman in un’intervista al New York Times.

di Laura Storchi

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