“L’isola dei cani”: Wes Anderson ci porta a Trash Island
TORNANDO ALLO STOP-MOTION IL REGISTA CI EMOZIONA E CI FA RIFLETTERE
Se non avete mai visto un film di Wes Anderson, è il momento di cominciare. ‘L’isola dei cani’, uscito nelle sale nel 2018 è un film di animazione realizzato in stop-motion, tecnica con cui il regista si era già cimentato attraverso l’apprezzatissimo ‘Fantastic Mr. Fox’, arrivato in Italia nel 2010. Se in quest’ultimo caso ad essere al centro della scena è una famiglia di volpi, mentre i pochi umani della storia fanno solo da contorno, anche ne ‘L’isola dei cani’ Anderson fa degli animali i veri protagonisti.
LA TRAMA – 2037, Giappone. In un futuro distopico nella città di Megasaki tutti i cani sono stati colpiti dal Tartufo febbrile (n.d.r. traduzione scelta per il nome inglese Snout-Fever), un’influenza i cui sintomi come insonnia, perdita di peso e respiro affannoso rendono i cani rabbiosi ed estremamente aggressivi. Per evitare che l’influenza canina possa sfociare nella zoonosi e colpisca gli umani, il sindaco Kobayashi decide di trasferire tutti i cani su un’isola piena di rifiuti chiamata Trash Island. Il primo cane ad esservi trasferito è Spots, il cui padrone è Atari, rimasto orfano e per questo nipote adottivo del crudele sindaco. Sei mesi dopo il bambino scappa dalla città con l’obiettivo di ritrovare il suo cane e con un areoplano riesce a raggiungere l’isola, dove, nel tentativo di uscire dall’aereo precipitato improvvisamente, incontra cinque cani che lo aiutano. Tale incidente gli varrà il soprannome di ‘Piccolo Pilota’. Di questo piccolo branco ad essere il capo è Chief, il randagio del gruppo che tiene a sottolineare la sua indole ripetendo più volte “io mordo” (“I bite”) mentre gli altri rimpiangono i deliziosi biscotti per cani e i sofà delle case accoglienti in cui abitavano. Essi decidono così di iniziare un’avventura per aiutare il Piccolo Pilota a cercare Spots, anche se ostacolati da uomini e cani-robot mandati sull’isola da Kobayashi per riportare il bambino a casa.
PLURILINGUISMO ED UMANIZZAZIONE – Con l’ironia che lo contraddistingue Wes Anderson sceglie di rendere i cani più umani degli stessi. Nel film infatti a parlare italiano (o inglese) sono solo i simpatici quattro zampe, mentre gli uomini parlano giapponese e spesso non vengono tradotti, nemmeno attraverso dei sottotitoli, lasciando in questo modo allo spettatore il potere di immaginare ciò che dicono. Basta questo per farci sentire molto più vicini ai primi che ai secondi: il linguaggio li fa nostri fedeli interlocutori e ci permette di comprenderli. A renderci fin da subito consapevoli della loro umanità inoltre è la democratica scelta dei cani di “mettere ai voti” se aiutare Atari o meno nella sua impresa. Chief è l’unico del gruppo che vota no e si professa contrario, avendo vissuto sempre ai margini della città e non fidandosi degli umani, tanto da dichiarare che ha quasi staccato una mano all’unico che abbia mai provato a coccolarlo. Ogni cane ha infatti una diversa personalità: Duke adora il gossip, Rex è calmo e pragmatico e Chief, posto in primo piano, partecipa ad un processo di crescita e cambiamento, mentre al contrario gli umani restano piatti e omologati. Persino le emozioni dei quadrupedi sono più vivide e concrete: sarà perchè ad essere grandi e intensi sono i loro occhi (soprattutto quando piangono), contro i piccoli occhietti dei nostri simili che invece fatichiamo a decifrare.
IL TEMA DELL’INFANZIA – Un altro grande tema ricorrente del regista è il contrasto tra adulti e bambini, enfatizzato anche in Moonrise Kingdom (2012), dove sono invece i bambini a vestirsi da animali. Dipingendo una realtà opposta a quella in cui viviamo (o crediamo di vivere?) i più piccoli appaiono ben più sensati e ragionevoli degli adulti. Così come in Moonrise Kingdom due dodicenni lottano per il loro amore contro le opposizioni di adulti immaturi e incapaci di prendersene cura, nell’isola dei cani gli adulti, come Kobayashi e il maggiore Domo, tanto inutile da avere un nome che lo limita unicamente al suo ruolo, sono spietati, impostori e despoti. Le uniche figure umane positive sono il Piccolo Pilota e un gruppo di studenti pro-dog, convinti oppositori del regime creato da Kobayashi, capitanati da una ragazzina, la sola a parlare la nostra lingua. Essi infatti hanno basi solide per pensare che l’influenza canina sia in realtà un complotto escogitato dal governo amante dei felini. Wes Anderson si mostra quindi intimamente legato al mondo infantile e alla sua purezza. L’innocenza che caratterizza i suoi personaggi emoziona e fa sorridere ma suscita allo stesso tempo un forte senso di nostalgia, che il regista da l’impressione di voler condividere. Sarà infatti una frase della cagnolina Nutmeg a convincere Chief ad aiutare Atari nella ricerca di Spots, alla sua domanda “Perchè dovrei?”, lei risponde “Perchè ha dodici anni”.
QUESTIONE DI STILE – Per quanto riguarda lo stile, quello del cineasta americano è inconfondibile: a essere un suo marchio di fabbrica troviamo le inquadrature simmetriche, la serie di colori definiti e assonanti, l’estrema attenzione all’ordine e alle peculiarità degli oggetti che circondano la scena. Ad essere perfettamente al loro posto c’è proprio il cumulo di rifiuti che abita l’isola, i quali non appaiono disordinati ma danno vita ad una costruzione minuziosissima. Caratterizzanti anche la grande attenzione nella realizzazione delle uniformi, tanto che le famiglie che hanno perso i loro cani sono riconoscibili dalle stesse divise, e nell’uso dei simboli: cartelli, disegni, biglietti e icone giapponesi scandiscono il film. Anderson esalta e onora le forme di arte del mondo giapponese, inserendo anche un importantissimo haiku (componimento poetico in versi) che Atari dedica ai cani nel finale.
Anche se ad un primo sguardo ‘L’isola dei cani’ potrebbe sembrare un film per bambini, i livelli di lettura sono in realtà ben più profondi. La pellicola è infatti ricca di un’ironia sagace, fatta di battute che dipingono la stessa umanità come assurda. Ridiamo di noi stessi quando i cani rompono la quarta parete per sottolineare quelle che sembrano ovvietà o commenti banali. Ad essere banale tuttavia, non è mai il contenuto della storia: il regista ci invita infatti a prendere sul serio i personaggi e le loro azioni. La grandezza del film è proprio in questo contrasto: nel trasmettere leggerezza e goia “in superficie”, e, allo stesso tempo, nella capacità di disseminare messaggi che invitano alla riflessione, dandoci l’occasione di scavare più in profondità.
di Arianna Banti
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