Riapriamo il dibattito sul “climate change”
COME E QUANDO L'EMERGENZA CLIMATICA È SCOMPARSA DAL DISCORSO MEDIATICO NEL SUO MOMENTO PIÙ CRUCIALE E PERCHÉ DOVREMMO PARLARNE DI PIÙ'
Si sente parlare spesso degli effetti del Coronavirus sull’ambiente, ma mai del suo contrario. I giornali fino ad oggi hanno parlato di clima solo in relazione ai dati positivi emersi da eventi drammatici, come quelli che stiamo vivendo. Tuttavia scarseggiano delle vere e proprie inchieste sul perché situazioni come questa si verifichino. Eppure le predizioni, dopo l’epidemia Sars del 2003, c’erano.
Certamente la quarantena quasi mondiale ha avuto effetti benefici dal punto di vista climatico e forse l’unico risvolto positivo della pandemia è la notevole riduzione delle emissioni che provenivano dai veicoli e dalle industrie ora in buona parte bloccati. Dunque, la riduzione del PIL mondiale si traduce, in termini di emissioni, in un calcolo approssimato di meno 4-5%, rispetto allo scorso anno. Un risultato che nessuna conferenza sul clima fino adesso si è mai sognata di raggiungere.L’altra faccia della medaglia però è che la comparsa del virus e il conseguente disastro sanitario, ha depennato dall’agenda giornalistica e quasi dalla memoria di molti, tutte le altre emergenze in corso, prima tra tutte quella climatica. Se questa necessità di documentare solo l’emergenza Covid-19 sembrava comprensibile nella prima fase, adesso – dopo quasi 60 giorni di quarantena – non è più giustificabile che nessun ente informativo o nessuna testata si sia soffermata, se non in maniera superficiale, sulla relazione tra la diffusione degli agenti patogeni e il cambiamento climatico. Può questo non essere il caso dello specifico virus che stiamo gestendo, ma è certo che la maggior probabilità di diffusione delle pandemie a causa dell’intervento dell’uomo sulla natura, rappresenta uno scenario sempre più possibile e che, purtroppo, possiamo immaginare perfettamente attraverso l’esperienza del Covid-19.
Già nel 2019 Andy MacDonald, ecologo delle malattie all’Earth Research Institute riconfermava l’ovvio, “che la deforestazione possa essere un importante fattore nella trasmissione di malattie infettive è una cosa piuttosto nota. È una questione di numeri: più danneggiamo gli habitat forestali, più è probabile che si vada incontro a epidemie di malattie infettive.” Eppure, nonostante stiamo vivendo sulla nostra pelle gli effetti devastanti di una pandemia e gli scienziati da anni ribadiscano quanto la tutela degli ecosistemi sia fondamentale per la nostra sopravvivenza, l’interesse generale non sembra essere rivolto davvero alle tematiche legate all’ambiente. Il triangolo epidemie-biodiversità-cambiamento climatico trova poco spazio nei giornali. E sembra che la lezione del Covid non sia servita.
Piuttosto che assumersi la responsabilità di un’analisi complessa e ampia si preferisce semplificare, attribuire la colpa a un capro espiatorio. Ne sono un esempio i cinesi ‘mangia-pipistrelli’ attaccati duramente dalla “gang that’s running Washington”: come Trump e i suoi collaboratori sono stati rinominati dal filosofo statunitense Noam Chomsky. Spetterebbe allora al giornalismo internazionale distogliere l’attenzione da affermazioni del genere per dedicarsi a opinioni autorevoli e ad analisi esaurienti come quelle degli scienziati.
La realtà, infatti, devia dalle surreali affermazioni di qualche leader politico e ci dipinge una verità un po’ più complessa: il contatto con i virus avviene nella maggior parte dei casi secondo altre dinamiche. Di fatto, spiega la virologa Ilaria Capua: “Se intervieni su un ecosistema e, nel caso, lo danneggi, questo troverà un nuovo equilibrio. Che spesso può avere conseguenze patologiche sugli esseri umani”.
Esempi temporalmente vicini a noi sono il caso della Malaria o di malattie come il virus Lassa, in Liberia, trasmesso attraverso le feci dei roditori, che ha avuto degli effetti simili a quelli dell’ebola uccidendo il 36% dei contagiati. La connessione tra le feci dei roditori e il cambiamento climatico sembra ridicola, eppure in questo caso la popolazione locale è entrata in contatto con il virus a causa della deforestazione della zona, avvenuta per far spazio alle piantagioni di palme da olio. Attratti dall’abbondanza dei frutti prodotti, orde di topi si sono così riversati nelle piantagioni e negli insediamenti e stabilimenti circostanti.
Questo è solo uno dei molti casi che sarebbero a disposizione dei grandi giornali e su cui sarebbe doveroso soffermarsi un po’ di più. Se non sul fatto in sé, almeno sulla concatenazione tra cause e conseguenze che hanno portato a una situazione tale. In questo modo il ‘senza olio di palma’ può acquisire molti più significati di un mero slogan ed essere il punto di partenza per un dibattito più ampio che coinvolga tutte le parti in causa.
Al contrario, nel panorama informativo italiano, il dibattito sull’emergenza climatica ha avuto spazio tra i media nella breve parentesi ‘thunberghiana’, dando più visibilità alla giovane attivista che effettiva informazione e si è spento definitivamente con l’avvento del coronavirus. Alcuni attribuiscono il poco interesse dei media per questo tema alla sterilità del dibattito, caratterizzato da una parte dai toni aggressivi e apocalittici degli attivisti e dall’altra da governi insensibili all’argomento e incapaci di trattare un problema grave ed esteso.
Malgrado la classe politica e dirigente non manifesti alcun interesse, adesso che ci siamo resi conto che le città senza auto non sono così male, ci piacciono forse anche di più, sarebbe il momento giusto per agire. Non solo individualmente, cambiando le proprie abitudini ma anche cercando di diffondere e creare un vero dibattito che non si limiti alla spettacolarizzazione degli slogan. Ci sono una moltitudine di studi su come poter riadattare i nostri modelli produttivi rendendoli più sostenibili, investire in energie rinnovabili, tecnologie all’avanguardia e rivoluzionare le città, ma questi strumenti/studi non vengono usati perché senza una spinta mediatica e una presa di consapevolezza generale siamo ancora molto lontani, globalmente, dal Green New Deal.
Il primo passo da fare è quello di prendere consapevolezza di tutti i fattori che compongono il complesso problema ambientale; per esempio le emissioni da veicoli e industrie sono solo una delle cause di inquinamento atmosferico ma una delle fonti di contaminazione sulla quale molti tacciono sono gli allevamenti. Ne sono una prova il fatto che zone in cui si hanno allevamenti intensivi come la pianura padana non hanno subito una grande diminuzione delle emissioni nonostante i 60 giorni di interruzione delle attività. Come conferma Federica Ferrario, referente della Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia, “gli allevamenti intensivi non solo si confermano la seconda causa di polveri sottili, ma si può osservare come dal 1990 al 2018, il loro contributo sia andato crescendo. Paradossalmente, però, una gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare questo sistema […] Per ridurre le emissioni di ammoniaca e quindi le concentrazioni di particolato, il settore allevamenti potrebbe fare molto. Puntare sulla qualità invece che sulla quantità è una priorità: attraverso produzioni che rispettino alti standard anche dal punto di vista ambientale”.
Eppure prima o poi torneremo alla normalità tanto agognata, le emissioni aumenteranno di nuovo come sono già iniziate a crescere in Cina e il problema persisterà. Allora sarebbe necessario, con il nuovo spirito comunitario da coronavirus, la solidarietà e l’internazionalismo di cui molti Paesi si riempiono la bocca, domandarsi se davvero sia il momento giusto per agire ed evitare futuri disastri come questo. I Governi si dichiarano impotenti e ammettono di fare ‘il possibile’, ma gli strumenti per cogliere la lezione del Covid-19 e fare davvero qualcosa al riguardo ci sono, per esempio investire nella sanità pubblica e agire realmente nell’ottica di tutelare il Pianeta, più che gli interessi di chi lo distrugge.
The Vision scrive che “la pandemia ci mette di fronte a un bivio più di quanto non lo abbiano fatto decenni di avvertimenti da parte della comunità scientifica: possiamo lasciare che il Covid-19, e le ripercussioni che inevitabilmente avrà sull’economia globale, arrestino il seppur timido processo di transizione energetica e conversione sostenibile del nostro modello produttivo, oppure possiamo approfittare di questo momento di pausa e massicci interventi statali per ripensare il nostro stare al mondo in chiave sostenibile ed equa, facendo della pandemia un volano verso la riconversione.“
Se Chomsky avesse ragione a dire che le conseguenze di questo virus dimostrano come i Governi siano sempre stati “il problema e non la soluzione”, allora spetterebbe ai giornali, al quarto potere (se ancora lo è) far luce sulla verità che i Governi tendono a nascondere dietro la retorica dell’emergenza, invece di lanciarsi in titoli folkloristici per pochi click in più.
di Melissa Marchi
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